Il titolo orienta in modo chiaro il focus di questo pezzo: la tecnologia sta alla didattica come la tifloinformatica sta alla didattica inclusiva; questa è la proporzione che cercherò di indagare nel ragionamento che segue. Partiamo dal primo estremo: la tecnologia.
Non ci siamo stancati di ripetere che questa società dell’informazione, della “tecno-lo-crazia”, porta con sé grandi, grandissime contraddizioni. Per buona sorte esistono sempre gli opposti: come il freddo trova il suo contrario nel caldo, l’ingiusto è bilanciato dal giusto, al disonesto corrisponde l’onesto, così, tecnologicamente parlando, gli effetti dell’ecumenico diluvio di bits mescolano ed alternano aspetti di diverso segno: eccesso, esasperazione, frenesia, volatilità, spreco, impigrimento, dipendenza, discriminazione, esclusione; ancora: abbondanza, precisione, efficacia, opportunità, qualità, utilità, condivisione, inclusione. Parole, e-mail, documenti, animazioni, comandi, popolano display di ogni tipo: schermi di computer, di palmari, di smartphone, di tablet, di barre braille, invadono dalla mattina alla sera le nostre giornate illudendoci di tessere nuove relazioni umane, mettendo spesso di fatto in discussione quelle poche che si danno per scontate di avere.
Il mondo della scuola, naturalmente, non è immune da questa pervasività e ne rimane a sua volta largamente contaminato, tant’è che i più disparati dispositivi tecnologici costituiscono ormai l’estensione dei banchi di classe. E’ solo di una ventina d’anni fa la dichiarazione di Bill Gates che nel 1994 sentenziava: “Verrà un giorno, e non è molto lontano, in cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare i negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani, tutto senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona;” proseguiva: “lasciando l’ufficio o l’aula scolastica, non ci staccheremo dalla rete in quanto il computer sarà più di un oggetto da portare con noi o di uno strumento da acquistare: sarà il nostro passaporto per una nuova vita mediatica”.
Anche al cospetto di questa moltitudine di condizionamenti, si misura quindi inevitabilmente l’integrazione sociale e l’inclusione scolastica dei ciechi. Sì, persino il modo di fare scuola fa slalom entro questo percorso obbligato, sbandando un po’ qua e un po’ là, tenendo talvolta a stento la corsia; perché non è possibile neppure in tale ambito prescindere da ciò che è tecnologico: ogni interazione è basata sulla varietà delle fonti, sulla trasmissione di immagini/video mediante l’utilizzo di proiettori, enormi schermi ad alta risoluzione, sofisticate lavagne elettroniche; ne consegue che la comunicazione verbale e paraverbale, ormai relegate rispettivamente al 7% e al 38%, perdono di valore, diminuiscono di efficacia e di incisività. La trasmissione degli insegnamenti avviene in prevalenza tramite elementi di comunicazione visivi che oggi costituiscono il restante 55% nel panorama delle relazioni.
Ora, andiamo sull’altro versante della nostra proporzione, l’altro estremo, dove il termine didattica sta a significare, nella sua accezione più stringata, basica ed elementare, la modalità di insegnamento, come faccio scuola, a quale metodo ricorro, di quale strumentazione-mezzo mi servo per insegnare. Qui, la didattica, l’insegnamento appunto, si appoggia sulla strumentazione tecnologica moderna per guadagnare e onorare il proprio scopo che sempre più, a sua volta, privilegia il canale visivo: slide, piattaforme di e-learning e documenti multimediali, peraltro, in gran parte non accessibili.
Fin qui, non incontriamo particolari problemi perché la tecnologia è un mezzo di comunicazione generalmente di facile acquisizione e di agevole apprendimento da parte del ragazzo che vede; questa, implicando semmai strategie e metodologie differenti nel momento dell’erogazione degli insegnamenti, affida agli operatori scolastici la responsabilità di ripensare i contenuti e di rimodulare i programmi. Questioncelle, comunque, che fanno leva sulla preparazione, sull’aggiornamento professionale, sulla passione, sul dovere del singolo docente.
A tal proposito, gli esperti di “cose di scuola” ci dicono che “non è più tempo di lezioni frontali, che il maestro-professore deve alzare il “sedere” dalla cattedra, rimboccarsi le maniche, andare in mezzo alla classe. Il maestro-professore “, continuano, “deve avviare un rapporto-relazione a contatto fisico con i ragazzi, deve stimolare attività ed esercitazioni pratiche all’interno dei gruppetti di lavoro precostituiti”. La riduzione delle distanze tra docente e classe e fra i compagni, ancorché favorisca il coinvolgimento nelle attività di gruppo, la socializzazione, l’intrecciarsi di aumentate relazioni nella collettività degli studenti, maschera il rischio reale che il ragazzo con disabilità continui a rimanere isolato in quanto dotato di strumentazione specifica, esclusiva e, possibilmente, non escludente.
Alcuni esempi del passato ci aiutino ad allontanare lo spettro della “solitudine tecnologica”.
Il picchiettio monotono, costante, distraente della macchina per scrivere induceva, attorno agli anni ’80, il docente di turno a smorzare l’assordante frastuono retrocedendo l’allievo cieco, dapprima dalle file davanti fino all’ultima, per poi girargli il banco verso il muro in fondo, per terminare infine la corsa fuori dall’aula, almeno per il tempo dei compiti in classe. Sempre in quegli anni è memoria uditiva di molti il ronzio dell’optacon che costituiva un vero e proprio tormentone per i compagni più indifferenti e per i docenti più insofferenti. Che cosa non si escogitava nei periodi successivi per “soffocare a morte” lo tsunami delle onde sonore delle stampanti braille di cui erano dotate le nostre ingombranti postazioni informatiche! E’ indelebile l’umiliazione di chi è stato privato del monitor perché “non ti serve, tanto non ci vedi” oppure di chi, in assenza dello screen reader per “indisponibilità di fondi”, ha dovuto cimentarsi sulla tastiera del computer scrivendo al buio alla stregua di come si faceva con la macchina per scrivere tipo Olivetti di molti anni prima. Versioni di sistemi operativi e applicativi obsoleti o non aggiornati, installazioni e configurazioni di software e di ausili di tifloinformatica approssimativi e non personalizzati, la voce roca del compagno sintetizzatore, sono altri pochi esempi di come la presenza di un set di strumentazione tecnologica non gestita, subita o presa a carico con scarsa consapevolezza possano rappresentare e dar luogo ad una sorta di involuzione nel processo inclusivo. Dobbiamo evitare cioè di erigere attorno al ragazzo un muro, una barriera, che stronchi di fatto sul nascere ogni potenziale modalità di relazione, disincentivando persino quella dialogica, unità elementare e fondante della più autentica forma di integrazione sociale.
L’inclusione scolastica dei disabili non può, in ogni caso, prescindere dall’apparato tecnologico, indispensabile per il compimento pieno della sua realizzazione e quando allora si accosta il termine inclusione alle parole didattica e tecnologia è opportuno fare una brusca frenata per proporre qualche ulteriore spunto di riflessione.
Molte delle persone ipovedenti e non vedenti, 285 milioni nel mondo di cui 19 milioni sotto i 15 anni, non hanno ancora ricevuto soluzioni efficaci dai dispositivi tecnologici sviluppati finora. Mentre gli educatori sanno generalmente individuare le tecniche più congeniali per far comprendere al gruppo-classe ciò che stanno insegnando, le cose cambiano quando di contro introduciamo ausili specifici che aiutano a declinare e a veicolare gli insegnamenti rispondenti alle necessità dei singoli. Per l’insegnamento della scrittura ad esempio, se per l’uso della penna si applicano strategie didattiche ormai consolidate, per quanto concerne l’insegnamento della scrittura mediante il codice braille occorre avvalersi del necessario apparato strumentale e di una didattica specifica che deve essere in possesso del formatore perché questi trasferisca le tecnicalità in modo efficace e in tempi adeguati; parimenti, lo stesso dicasi relativamente al differente rapporto con la didattica che si evidenzia nell’introduzione della tecnologia: una cosa è l’insegnamento dell’uso del computer per tutti gli allievi, diverso è l’insegnamento del computer dotato di tecnologia assistiva. Se operazioni quali la condivisione del materiale, l’autonomia nella manipolazione di documenti, nella produzione di file, nella navigazione in internet, risultano essere attività di facile svolgimento per l’allievo che vede, per i nostri ragazzi, come per il braille, occorre sviluppare i prerequisiti e le giuste condizioni per poi impostare un percorso d’insegnamento della materia che abbia ragionevole possibilità di soddisfazione per il docente e per il discente. Prima di essere mezzo (uno strumento, un canale attraverso cui far transitare i contenuti), l’uso della tecnologia per chi non vede è un fine, un obiettivo da perseguire con determinazione, impegno e avvedutezza; quindi, valutarla, accertarne il grado di accessibilità, analizzare il contesto, concordare e scegliere le soluzioni tecnologiche più idonee alle caratteristiche del ragazzo, adeguarla al fine delle esigenze scolastiche, acquisirla (comprarla), individuare tempi e luoghi per la proposta didattica, installarla, configurarla, insegnarla, mantenerla aggiornata: questo non è il gioco dell’oca (butto i dadi, c’è un finanziamento e qualcosa succederà), è tutto molto più serio, giochiamo sulla pelle dei nostri ragazzi. Ciò richiede non solo energie, sforzi, passione, competenze specifiche negli operatori, ma anche una compartecipazione consapevole, proattività da parte dell’allievo nell’intero processo; parliamo di insegnare una materia aggiuntiva: prima di essere tramite, un ponte, la tecnologia assistiva è uno scopo, un obiettivo da pianificare e da conseguire.
Indubbiamente, l’ultimo quarantennio è stato caratterizzato da una sete di innovazione tecnologica che ha interessato anche il mondo della disabilità; nel nostro ragionamento, ogni cieco è stato, suo malgrado, bersagliato da corsi lampo di alfabetizzazione informatica e in qualche modo destinatario di una postazione tecnologicamente attrezzata; non importava perché, non importava con quale tecnologia o con quale applicativo e con quali risultati: erogare formazione, questo l’imperativo!
Ciò che è stato ed è oggi ancora di forte criticità, e al riguardo non sono stati fatti significativi passi avanti, è l’assenza pressoché totale della “tiflo-info-didattica”: per quale scopo insegnare? cosa insegnare? con quale ausilio insegnare? come insegnare? In poche parole, dobbiamo scongiurare un altro rischio, peraltro verificatosi troppo spesso, quello cioè di istruire sommariamente l’allievo con disabilità visiva senza renderlo in realtà autonomo nell’uso quotidiano della strumentazione informatica, inducendolo a rinunciare al suo utilizzo. Occorre evitare di trasformare il computer in un’automobile impossibile da guidare!
Sebbene la tifloinformatica, terzo termine preso in esame nella proporzione, vanti una lunga esperienza ed una corposa letteratura, chi ha vissuto l’evoluzione della tecnologia assistiva di questi anni, in qualità di istruttore o di utente, sa che nei corsi di informatica vengono proposte solo alcune delle numerose combinazioni H/W e S/W dell’intero ricco panorama disponibile.
Le trasformazioni sociali conseguenti alla pervasività tecnologica richiedono competenze digitali per lo più solo di prima alfabetizzazione per un coinvolgimento attivo nel processo di cambiamento in atto. Prova ne è che l’accelerazione della diffusione della tecnologia in ogni ambito della nostra vita (nelle istituzioni scolastiche, nel mondo del lavoro, nei servizi pubblici) è stata favorita dall’abbattimento dei costi e dalla semplificazione dell’interfaccia utente. Due elementi che, per un verso, hanno permesso indistintamente ad ogni cittadino di possedere un dispositivo tecnologico, dall’altro, hanno impedito di fatto ad una significativa fascia di potenziali utenti di fruirne direttamente e in modo proficuo. Infatti, disegnare interfacce amichevoli di facile comprensione e di immediato dominio significa, quasi sempre, esaltare il senso della vista; significa, quasi sempre, progettare aprioristicamente solo per una determinata categoria di utilizzatori; significa, quasi sempre, creare a posteriori il fenomeno del digital divide. Poter acquistare con relativa facilità qualsiasi oggetto a valenza tecnologica non equivale automaticamente ad averne piena padronanza. Progettare strumentazione accessibile comporta, fin dal momento dell’ideazione, porre attenzione ed analisi particolari relativamente alle interazioni tra i fruitori e il device, alle modalità di attivazione e di controllo di ciascuna funzione, al livello di usabilità dei dispositivi in ciascun loro aspetto. Più persone saranno messe nelle condizioni di “manipolare” e trarre un qualche beneficio dalle prestazioni del prodotto, maggiore sarà la sua divulgazione nel mercato globale e minore sarà il gap (o divario) tecnologico, vale a dire la distanza qualitativa e anche quantitativa di sviluppo tecnologico esistente fra paesi, fra categorie di persone, fra settori di attività diversi.
Accatastare tuttavia materiale tifloinformatico sul banco di scuola in mancanza di un progetto compiuto può risultare motivo di ansia, frustrazione e suscitare senso di inadeguatezza nell’allievo disabile. A fin di bene e in buona fede, si rincorrono tutti i contributi disponibili per accappararsi questo o quell’ausilio senza che a monte sia stata effettuata una qualsiasi valutazione qualitativa circostanziata. La scelta degli ausili di tecnologia assistiva deve essere ricompresa nell’ambito di un’analisi complessiva che tenga conto della coerenza dell’usabilità della strumentazione individuata in rapporto al grado di accessibilità del sistema tecnologico integrato e al progetto formativo da realizzare. Un display braille, un OCR, un software per la matematica nasconderanno un vero e proprio spreco di danari se inseriti all’interno di una infrastruttura telematica sviluppata attorno a videoproiettori, filmati, slide e apparecchiature non accessibili! L’inutilità sarà certamente conseguente in assenza di competenze tiflotecniche e tiflotecnologiche capaci di integrare e adattare tecnologie differenti, ma anche di massimizzare e veicolare flussi di informazioni per lo scopo prefissato. I risultati attesi, inerenti ad un’effettiva inclusione e agli obiettivi formativi predeterminati, saranno scarsi, deludenti, erroneamente fatti ricadere sull’incolpevole studente con disabilità.
Quanto più vi sarà convergenza fra i molteplici adiacenti fronti interessati e coinvolti, tanto più si raggiungerà il maggiore grado di accessibilità:
a) l’oggettività delle regole dettate dalla normativa vigente dovrà essere conosciuta, condivisa, fatta propria e applicata dai progettisti e dagli sviluppatori di tecnologia, dai formatori e da tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di comunicazione e sono responsabili della distribuzione dell’informazione;
b) le competenze tiflotecniche, tifloinformatiche e tiflologiche dovranno ritrovare nella preparazione dell’esperto docente di informatica la capacità di leggere, interpretare e codificare l’ineludibile soggettività che sussiste nel rapporto tra fruitore e usabilità dello specifico strumento tecnologico;
c) la promozione, la pubblicità, la scheda tecnica di assemblaggio della componentistica e il manuale utente di un qualsiasi dispositivo, dovranno muovere da valutazioni e da validazioni fondate su metodi scientifici di rilevazione di accessibilità e usabilità.
Spero, mi auguro, sono convinto che in particolare per quest’ultimo aspetto la nostra Associazione e le strutture collegate sapranno sostenere sui versanti tecnico e politico un percorso che condurrà alla formalizzazione di un sistema di certificazione normato e autorevole.
La stretta collaborazione con le autorità competenti, con i produttori, i fornitori e gli stakeholders caratterizzerà una prospettiva che nel prossimo futuro consentirà di varcare nuove frontiere ed esplorare sorprendenti scenari nelle interazioni uomo-macchina-disabilità.
Per tracciare ulteriormente il perimetro entro il quale si articola il nostro ragionamento attorno all’accessibilità, alla tifloinformatica, alla tiflo-info-didattica e alla didattica inclusiva, occorre prendere in considerazione altre determinanti variabili. In effetti, la definizione dei programmi dei percorsi formativi di informatica di una qualsivoglia tipologia rivolti ai ciechi e agli ipovedenti, volendo naturalmente generalizzare, è influenzata da interferenze esterne non trascurabili. Vediamo schematicamente alcuni elementi utili per la progettazione di un corso.
1. Scopo della proposta formativa:
formazione di base; formazione avanzata; formazione mirata a specifici argomenti (ausili hardware o software); formazione specificatamente funzionale ad apprendimenti di altre discipline.
2. Destinatari della proposta formativa:
corso individuale; corso di gruppo; allievi in età scolare, lavorativa, adulti (tempo libero).
3. Disponibilità di risorse economiche:
assenza di finanziamento; finanziamento pubblico; finanziamento privati; corso finanziato dagli iscritti.
4. Disponibilità di risorse umane:
qualifica/esperienza del docente; presenza del co-docente/tutor; docente vedente, ipovedente o cieco.
5. Scelta degli argomenti:
argomenti programmati dagli organizzatori della proposta formativa, suggeriti dall’allievo/i dettati dalle circostanze (durata della formazione, disponibilità del materiale necessario, prerequisiti riscontrati).
6. Scelta della tecnologia:
tipologia aula; caratteristiche allievi (ipovedenti, ciechi assoluti, gruppo misto); obiettivi formativi.
7. Durata del percorso formativo:
disponibilità del personale, degli allievi, dello spazio-aula; tipologia e complessità degli argomenti in programma; budget economico disponibile; tempistica dettata dalle regole del bando pubblico.
8. Verifica dei prerequisiti d’ingresso:
allievo ipovedente, cieco; possesso del codice braille; conoscenza degli elementi di base degli argomenti del corso.
9. Selezione dei candidati:
verifica dei requisiti per la partecipazione al corso.
10. Fine secondario:
socializzazione; sensibilizzazione.
Se l’esperienza maturata nel campo tifloinformatico ci incoraggia ad accertare con ragionevole consapevolezza le competenze di base indispensabili per il profilo del docente di informatica, resta da colmare l’enorme lacuna concernente la definizione del minimo comune denominatore volto ad attribuire ai corsi un valore aggiunto, un marchio di qualità: non solo quanti e quali argomenti vengono proposti in rapporto ad un dato tempo, ma con quali metodologie, con quali strategie didattiche vengono affrontate le lezioni. Quindi: perché fare? quando fare? cosa fare? come fare?
Le risposte sono necessarie, ma prima dobbiamo metterci d’accordo sulle domande. Di seguito, ancora alcuni quesiti che possono far comprendere meglio la delicatezza e il grado di complessità dell’argomento oggetto di analisi.
Qual è il profilo del tifloinformatico? Chi è autorizzato a fare la scuola guida e a rilasciare la patente? Basta il buon senso, l’intuito, l’esperienza personale per orientarsi e, soprattutto, orientare altri nella scelta fra ciò che è utile e ciò che è spreco o superfluo? Quali sono le competenze di chi intendiamo riconoscere e abilitare ad impartire con autorevolezza buoni consigli ed efficaci insegnamenti? Un ingegnere? Un sistemista? Un esperto di tecnologia assistiva, di accessibilità oppure di didattica informatica, di didattica generale o speciale? Come insegnare la tifloinformatica? Il professionista ci aspettiamo che sia in possesso di un’accertata cultura tiflologica, tiflopedagogica? E’ bene che conosca la didattica dell’insegnamento del braille e avere propri i concetti di aptica per proporre in modo opportuno esplicative mappe in rilievo? Deve conoscere il percorso di insegnamento della tastiera, il significato dei tasti funzione dei display braille, l’utilizzo approfondito degli screen-reader? Vediamo in questa figura un tiflologo specializzato in questioni tecnologiche oppure un informatico specializzato in questioni tiflologiche o più precisamente tiflopedagogiche? Quando e come introdurre il codice braille nei percorsi di alfabetizzazione informatica? Proponiamo un metodo basato su un apprendimento mnemonico e meccanico che trascuri il contesto oppure concettuale e logico che tenga conto della descrizione di finestre, titoli, icone, non tralasciando di nominare elementi e simboli grafici visivi e che si avvalga del supporto di tavole in rilievo per arricchire le esercitazioni e fissare le immagini? La tiflo-info-didattica è altro dalla tiflologia oppure è l’altra faccia della medesima medaglia? Nel porre l’obiettivo didattico, ci si deve strettamente attenere alla trattazione dell’argomento oggetto dell’insegnamento (un sistema operativo, un applicativo, una funzione) oppure finalizzarlo alla comprensione di un altro insegnamento?
E’ necessario, poi, indagare con successivi interrogativi l’altro versante: l’allievo. Quali i prerequisiti necessari per un approccio corretto ed efficace all’avventura tecnologica? Vi è un’età in cui incominciare? Da quali prerequisiti partire?
Stiamo vivendo, tiflologicamente parlando, momenti delicati. Si ha la percezione, peraltro, che i venti stiano cambiando di direzione. La didattica inclusiva richiede incontrovertibilmente anche risposte quantitative: è necessario conoscere piani, regole, tempistiche, oltreché riferimenti economici certi. Elementi meramente burocratici-amministrativi dovrebbero essere comunque in subordine e conseguenti ad aspetti concettuali e teorico-pratici, i quali devono invece essere anteposti e fungere da guida. Dobbiamo far tesoro di un’esperienza di quasi quarant’anni di integrazione scolastica che per una simpatica coincidenza corrisponde più o meno ad altrettanti di tecnologia assistiva.
Siamo chiamati oggi alla messa a punto di un metodo scientifico di validazione di efficacia e di efficienza del rapporto tra tiflo-informatica e didattica inclusiva: ecco l’incognita della nostra proporzione! Qualità dello strumento-mezzo, qualità nella veicolazione dei contenuti, qualità della didattica specifica, qualità nella trasmissione del messaggio. Chi si prende cura di tutto questo? Questa responsabilità non può essere ricompresa nei singoli operatori; non è più tempo degli assoli! Non esiste “Superman”! Occorre operare in team! Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di affermare che le competenze necessarie per fare didattica inclusiva con la tiflo-informatica trovano il loro alveo naturale nelle maglie di una rete precostituita sviluppatasi attorno a quegli anelli portanti che hanno tracciato e scritto la storia tiflopedagogica nel nostro paese. Soltanto se proteggiamo, difendiamo, sosteniamo, promuoviamo le nostre strutture che operano in tal senso, a partire dagli Istituti per Ciechi, possiamo trovare o “costruire” le risposte necessarie per garantire un servizio tiflopedagogico che non faccia rimpiangere il passato. Oggi, occorre una convergenza multidisciplinare. Attività di ricerca e di aggiornamento, seminari, veri e propri corsi mirati, valutazioni di dispositivi e di software, attività laboratoriali extra-scolastiche; tutte queste belle cose devono avere fonte, devono muovere da un know-how conquistato e tramandato da chi ci ha preceduto. Affermare il principio della “qualità totale”, concetto oggi tanto caro al moderno mercato imprenditoriale, è il nostro primo dovere, primo obiettivo; ciò significa erogare un servizio utile per rispondere alle reali necessità dei nostri ragazzi e delle loro famiglie.