Il dizionario delle cose perdute e altro… Intervista a Francesco Guccini, di Luisa Bartolucci

Autore: Luisa Bartolucci

Il 2012 ha visto l'uscita, in tutte le librerie, di un nuovo volume scritto da Francesco Guccini: "Il dizionario delle cose perdute", edito da Mondadori e presente anche nel catalogo del Centro Nazionale del Libro Parlato dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, prodotto in standard Daisy. Oltre ad essere un grande cantautore, Francesco Guccini è un fine scrittore ed anche un poeta. Il libro, che non vuole essere nostalgico, od indulgere alla malinconia, raccoglie, al proprio interno, una serie di "cose", che non ci sono più, oggetti o anche utensili di uso quotidiano, comune, sostituiti, talvolta, dalle tecnologie o dagli strumenti della comunicazione.
Al cantautore modenese abbiamo rivolto alcune domande, ricostruendo insieme a lui la sua storia, la carriera e, naturalmente, soffermandoci anche sulla sua attività di scrittore.

D. Maestro, quando e come nasce la sua passione per la musica?
R. Mah, nasce… dire quando nasce è difficile… quando ero piccolo ascoltavo le canzoni, le cantavo… Mi sono messo a suonare la chitarra nel 1957, sulla scia del rock n' roll, è nata in me la passione per questo genere musicale. Nel 1961 ho iniziato a scrivere canzoni un po' diverse, la prima è stata "l'Antisociale"… dopo il servizio militare ho composto altre canzoni, "Auschwitz" (la canzone del bambino nel vento) e lì è iniziato un po' tutto…

D. Sino a giungere a "Folk beat n. 1", un album straordinario, contenente brani che ancor oggi i giovani ascoltano…
R. Sì, ma è comunque un po' datato…

D. Sono seguiti altri album sino a giungere a "Radici"…
R. "Radici" è stato il mio quarto album…

D. Quasi tutte le canzoni che compongono "Radici" sono entrate a far parte della storia della musica italiana, si pensi a "La locomotiva", "Incontro", "Il vecchio e il bambino", "La canzone dei dodici mesi". Maestro, cosa l'ha ispirata?
R. Non saprei per la verità… avevo fatto già altri due album, "Due anni dopo" e "L'isola non trovata". La prima canzone che ho composto è stata proprio quella che dà il titolo al disco: "Radici", e pensavo a quelle che erano le mie radici in generale, le mie radici nel passato di casa, le radici mie, quelle storiche, politiche, se così si può dire… È così che è nato quell'album… La copertina altro non era che una fotografia dei miei bisnonni e nonni, proprio per stabilire quale fosse il rapporto tra me e le "radici" in un certo tempo. Quindi il mulino dei miei nonni, Pavana e tutto il resto, compresa l'esperienza della città…

D. Che storia ha "La locomotiva"?
R. "La locomotiva" nasce da un libro che ho letto di memorie di un operaio, un certo Bianconi, se non erro. In una pagina di questo libro si racconta brevemente di questo operaio… l'autore scrive "l'ho conosciuto, sarà stato un momento di follia", ha preso questa locomotiva, è partito contro un altro treno che veniva dall'altra parte. Un mio vicino di casa, di cui ho poi raccontato in una canzone, "Il pensionato", mi ha detto: "Professore, quello è stato un gesto politico, lui era un anarchico," mi ha narrato più compiutamente la storia. Ho quindi deciso di scrivere questa canzone, che dura molto, nove minuti e qualcosa e l'ho composta in brevissimo tempo, in una ventina di minuti. Le strofe venivano fuori di getto, mentre ne scrivevo una prendevo appunti per la stesura della successiva, giacché mi venivano in mente l'una dopo l'altra. Mi sono poi accorto che mancava la strofa iniziale… La strofa iniziale è l'ultima che io ho scritto.

D. Non so che viso avesse… Ripresa poi nel 2010 quale titolo della sua biografia…
R. Sì, ma lì la colpa non è mia! La colpa è dell'editore…

D. Si giunge poi a "via Paolo Fabbri 43" (1976) con il quale ottiene un grosso successo commerciale. Prima lei citava "Il pensionato", ma sicuramente il grande pubblico ricorda bene anche "L'avvelenata"… che rapporto ha Lei con questa canzone?
R. Io non volevo neanche inserirla nel disco, poiché era nata da uno sfogo… Riccardo Bertoncelli del quale adesso sono amico, aveva criticato non il disco, ma le intenzioni. Le critiche sono giuste se si esprime la propria opinione sulle canzoni, sugli arrangiamenti… Su questo non avrei mai trovato nulla da dire. Invece poiché avevo fatto un contratto con una casa discografica, Bertoncelli disse che dovevo per forza fare quel disco e lo avevo fatto così… questo era profondamente ingiusto. Sono rimasto molto male e così è nata quella canzone. Quelli erano anche i tempi della contestazione; a me non ne hanno mai fatte, ma alcuni colleghi venivano persino tirati giù dal palco… Da questo punto di vista era un periodo abbastanza curioso. Così è uscita "L'avvelenata". Come dicevo io non volevo metterla nel disco, ma sono stato esortato a farlo. Il brano ha avuto un grande successo tanto è vero che in tutti i concerti me la chiedevano, ma ormai era superato, da parte mia, il motivo per il quale la canzone era nata, quindi l'ho eliminata, non la eseguivo più, ma la gente la chiedeva e continua a richiederla.

D. Esce "Amerigo".
R. Sì, "Amerigo". Con questo album torniamo un po' indietro a "Radici", nel senso che Amerigo era il mio prozio Enrico, uno di quelli della fotografia di "Radici". Ma lì più che parlare della figura di questo mio prozio l'intento era paragonare le due Americhe, cioè, l'America di mio zio andato minatore negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso, alla mia America, l'America della mia gioventù, l'America sognata, letta in tanti libri, vista in tanti film, ascoltata in tanta musica… Questi erano i due termini di paragone… In quel periodo l'America era sfumata, sfocata; dopo il Vietnam dopo tante cose… Quella canzone è nata proprio per questo: paragonare le due Americhe di due persone della stessa famiglia, a distanza di tempo, il mio prozio e me stesso tanti anni dopo e da un altro punto di vista.

D. Lei ha dedicato anche diverse canzoni ad alcune città, al di là di Bologna e Venezia ha scritto anche Bisanzio. Perché comporre un brano proprio sull'antica Bisanzio?
R. Bisanzio mi aveva colpito perché pensavo al crollo dell'Impero bizantino avvenuto quasi contemporaneamente alla scoperta dell'America, Roma era già finita nel Quattrocento e rotti dopo Cristo, Bisanzio è durata mille anni in più… Il crollo di un mondo, di un'atmosfera, di una civiltà, mi è venuto in quel periodo in mente anche di parlare del crollo e dell'agonia della nostra civiltà occidentale: l'attuale periodo di crisi dimostra che tutto sommato quanto pensavo era vero. Così mi è venuto il desiderio di cantare Bisanzio e di inventarmi questo personaggio, questo Filemazio, che è un vecchio saggio che non capisce bene cosa stia cambiando, non comprende bene cosa stia succedendo e si chiede cosa accadrà dopo di lui, quando questa civiltà sarà finita.

D. I suoi testi vengono anche analizzati all'interno delle scuole, poiché sono considerati dei veri e propri componimenti poetici e lo sono di fatto. Che sensazione si prova?
R. Di imbarazzo. A parte il fatto che nelle scuole medie ed elementari sono due le canzoni che viaggiano, "Auschwitz" e "Il vecchio e il bambino". Altri testi li hanno esaminati e sono entrati in antologie. Ma per me è difficile che la canzone possa essere esaminata solo come testo poetico: la canzone è più complessa, ha la musica, deve essere ascoltata, cantata, ed è già diverso il momento in cui uno l'ascolta su un disco od alla radio, rispetto al momento in cui uno la interpreta, la canta. Quindi vi è anche il teatro, il movimento, nonché l'atmosfera creata dal pubblico. Sono dunque momenti estremamente diversi. La canzone così, nuda e cruda, esaminata solo come un testo poetico raramente può reggere per me. A volte mostra anche la corda, perché è cantata e questo è l'importante della canzone.

D. Lei nel pronunciare la parola teatro, mi ha fatto pensare ad "Opera buffa" ed in modo particolare alla "Genesi".
R. Ah beh sì… Nel disco in realtà è contenuta solo una piccolissima parte di quello che facevo in pubblico. La canzone dura relativamente poco, ma erano i commenti che in serate in cui ero particolarmente in forma, potevano durare anche dei quarti d'ora… Quello più che teatro era cabaret.

D. Come nasce la "Genesi", un pezzo che ha affascinato molti di noi nel corso degli anni?
R. Non mi ricordo esattamente, ma c'è da dire che, in quel periodo, frequentavo un gruppo di amici insieme ai quali ho fatto cabaret, canzoni studiate appositamente per quelle occasioni, quali "Il tango del bello" ed altre. Era l'atmosfera creata insieme a quegli amici, l'atmosfera di quel periodo. Successivamente, di fatto, non sono più riuscito a comporre canzoni satiriche di quel genere. Non ricordo esattamente quale fu lo spunto che diede vita alla "Genesi", penso, come dicevo, che tutto sia nato da quel gruppo di amici, da quelle serate che facevamo per divertimento, tra di noi. Più che uno spunto, dunque, si trattava proprio di una atmosfera generale.

D. Che origine ha, invece, la passione per il giallo?
R. Ma, come lettore nasce da tempo… da ragazzino, quando finiva l'estate ed andavamo via, i miei nonni affittavano la casa in cui io ora abito. Loro lasciavano tutti i giornali, i libri che avevano preso durante l'estate. Accadeva che io ritornavo, da solo, giù al mulino dei nonni e leggevo e leggevo questi gialli che mi piacevano tantissimo. Sono dunque sempre stato un lettore di gialli davvero appassionato. Poi ho conosciuto Loriano Macchiavelli; gli ho offerto una storia che avrei voluto scrivere io, ma allora non ero un giallista, avevo solo degli spunti, delle idee. È quindi arrivato un editor della Mondadori che ha detto: "Perché non lo fate assieme?". Nessuno di noi due aveva mai provato a scrivere insieme ad un altro. Abbiamo tentato, ci siam messi lì, la cosa ha funzionato e siamo già al sesto libro giallo. Adesso stiamo scrivendo un racconto che verrà inserito in una antologia natalizia, e presto ci dedicheremo ad un nuovo giallo, col nuovo personaggio che abbiamo ideato, che non è più il Maresciallo Santovito, ma un ispettore della forestale, che è stato l'eroe del nostro ultimo libro.

D. Cosa può dirci invece de "Il dizionario delle cose perdute", 140 pagine che fanno riflettere, tornare anche indietro con il tempo?
R. Questo libro ha avuto un successo straordinario che, per la verità, non immaginavo. Anche in questo caso un editor mi ha esortato a fare una cosa del genere, vale a dire, raccontare delle cose che vi erano un tempo e che ora non vi sono più. Oggi si procede a delle velocità incredibili, ad esempio, un computer di tre mesi fa è già obsoletissimo… un tempo, invece, le cose duravano, duravano, poi sono finite. Mi sono messo davvero d'impegno a scrivere questo libro: le idee mi venivano in mente in continuazione. La casa editrice lo ha chiuso in fretta, poiché volevano farlo uscire in tempi brevi e numerose idee sono rimaste fuori. Mi hanno, visto anche il successo, esortato a scriverne un altro, ho detto "Ma non lo so se ne farò un altro". Tante idee però sono già qui, pronte, non sarà difficile che io mi rimetta a raccontare altre storie. Mi sono divertito moltissimo a dar vita a questo libro, dal quale non traspare alcuna nostalgia o malinconia, giacché come è facile immaginare, non si può avere nostalgia della maglia di lana di pecora che pungeva in maniera tremenda o cose del genere.

D. Neanche della siringa di vetro…
R. O della siringa di vetro, che probabilmente aveva un ago in ferro battuto. Ricordare queste cose di un passato recente, tutto sommato mi ha divertito molto. Può darsi quindi che io decida di rimettermi a scrivere e che pubblichi "Il dizionario delle cose perdute 2 la vendetta"… o qualcosa di simile.

D. Tornando alla musica, alle sue canzoni, a cosa sta lavorando? Ho letto che ha già composto un certo numero di brani, in vista di un nuovo album. A quanti è giunto?
R. Sono arrivato a cinque e mezzo-sei. Altre due canzoni stanno arrivando, può darsi che presto io mi rimetta all'opera. Probabilmente sarà l'ultimo disco, perché ormai la musica, le canzoni sono qualche cosa che… non dico che mi hanno stancato, ma ormai ne ho fatte tante ed è difficile… Ogni tanto mi viene un'idea, poi mi rendo conto che l'ho già sviluppata e trattata in qualche brano. Farò questo disco e qualche concerto forse, ma ormai siamo alla fine.

D. Cosa può dire invece del suo rapporto con il cinema?
R. Mah, quelli sono episodi talmente casuali: ho interpretato delle parti nel film di Ligabue "Radiofreccia", in alcuni film con Pieraccioni. Sono divertimenti, mi hanno chiamato e mi son detto: "Ma sì, andiamo a vedere cosa succede". È stata una curiosità. Debbo dire che è molto noioso: nel caso del concerto si va, si tiene lo spettacolo, ci sono le prove prima ma il tutto si risolve in quelle due ore, due ore e mezzo. Nel cinema, invece, è necessario aspettare continuamente; si gira una scena, poi debbono cambiare tutto ed allora si attende… È noioso. Comunque vista così da hobbista, da uno che va lì per recitare una particina e si diverte a farla, perché no… Non ho mai pensato di fare l'attore sul serio…

D. Maestro, ho letto che al suo nome sono stati legati una farfalla Parnassius Guccinii, un asteroide, oltre ad un cactus…
R. Sì, il cantautore del cactus… Forse questa è una battuta un po' volgare, ma efficace… Comunque è tutto vero. Il nome dell'asteroide è una sigla, non lo ricordo, ma neanche il nome del cactus rammento, è piuttosto difficile…

D. E la farfalla?
R. Quando mi è stato detto mi è venuto da ridere in un primo momento. Poi ho visto questa farfalla che somiglia ad una normale cavolaia. Evidentemente hanno trovato delle particolarità curiose che ne hanno fatto una specie nuova, nuovissima… Questo ricercatore ascoltava le mie canzoni e l'ha battezzata con il mio nome, come quello che ha trovato questo cactus. Egli era lì che cercava questa specie, ascoltava le mie canzoni e lo ha battezzato con il mio nome. Comunque fa sicuramente piacere.

D. Che percezione ha Lei della cecità?
R. Ma vede, adesso le dirò una cosa che… Purtroppo non dico sono cieco, perché io vedo ancora in giro ecc., ma per leggere ho bisogno di un apparecchio, il computer ha una lente speciale… Ho perso molto molto la vista. Posso dire che, non sono cieco, però sono parallelo abbastanza. Un oculista mi ha detto: "Non diventerai mai cieco", da una parte ciò mi consola molto, perché pensare di non riuscire più a leggere e di non essere in condizione di scrivere sarebbe stato per me un dramma piuttosto grande. Vivo questa sensazione parallela con grande intensità, quindi mi rendo ben conto di cosa voglia significare ed anche mi rendo conto di come le persone che non vedono abbiano superato in molte cose il proprio handicap. Così dicono di me: mia moglie dice di vedermi abbastanza tranquillo e sereno.
Bisogna adattarsi, riuscire a superare questi scogli che ci sono e fare con quello che si ha, tutto sommato. Dunque la sua domanda non mi trova del tutto impreparato o inconsapevole rispetto a questo problema, poiché è un problema che, sia pure parzialmente, ho anch'io adesso.

D. Cosa ha provato nell'apprendere del terremoto in Emilia… Lei in quel periodo non si trovava in quelle zone…
R. È stata una cosa gravissima, tanto inaspettata quanto molto più grave e mi dicono dei parenti che ho a Carpi ed altra gente che è stata in zona, che non si è avuta la percezione esatta di ciò che è accaduto, perché è stato veramente disastroso e preoccupante. La gente emiliana vuole ricominciare, sta ricominciando, con grande forza d'animo e volontà. Io comprendo che è davvero estremamente complesso e faticoso.

Luisa Bartolucci