La competenza giurisdizionale in tema di sostegno al minore disabile è del giudice ordinario, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

In tema di riparto di giurisdizione, il dibattito intorno al riconoscimento o meno di un diritto soggettivo (con conseguente pronuncia a favore della giurisdizione del giudice ordinario) oppure di un interesse legittimo del minore disabile in tema di sostegno scolastico (con giurisdizione affidata al giudice amministrativo) è sempre  ancora attuale.

In merito segnaliamo la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, n. 25011/2014 del 25 novembre 2014 che,  non è solo pregevole per la forma espositiva e la tecnica motivazionale, ma è molto importante e condivisibile nel merito, in quanto ha stabilito che spetta al giudice ordinario la giurisdizione sull’assistenza del minore disabile a scuola, perché il diritto all’istruzione è parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l’inclusione della persona umana con disabilità.

La sentenza arriva dopo che un genitore ha presentato ricorso contro le amministrazioni statali e comunali, che avevano assegnato al figlio minore, affetto da handicap grave certificato dalle competenti commissioni mediche ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della Legge 104/1992, 15 ore di Aec, non garantendo il rapporto di 1 a 1, un numero di ore non equivalenti all’intero orario di frequenza.

La Corte regolatrice della giurisdizione, dopo un excursus sulla normativa vigente nazionale e internazionale in materia, argomenta partendo dalla legge 1° marzo 2006, n. 67 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), che nel promuovere la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali, traccia all’articolo 2 una rilevante distinzione tra due possibili forme di violazione di tale parità (la discriminazione diretta e la discriminazione indiretta), e, all’articolo 3, affida al giudice ordinario la competenza giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti discriminatori, richiamando le nuove norme sulla tutela antidiscriminatoria previste dall’articolo 28 del Dlgs n. 150/2011.

La stessa Corte ha altresì richiamato quanto già disposto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 215 del 1987, in cui è chiarito che la frequenza scolastica è, «insieme alle pratiche di cura e riabilitazione ed al proficuo inserimento nella famiglia», «un essenziale fattore di recupero del portatore di handicap e di superamento della sua emarginazione, in un complesso intreccio in cui ciascuno di tali elementi interagisce sull’altro e, se ha evoluzione positiva, può operare in funzione sinergica ai fini del complessivo sviluppo della personalità».

Pertanto, una volta che l’istituto scolastico abbia adottato un piano educativo individualizzato o uno strumento equipollente, non c’è alcuna discrezionalità da parte dell’amministrazione nell’assegnare le ore di sostegno, che debbono essere comunque assicurate in misura pari al piano educativo già deliberato.

La Corte di Cassazione (Sentenza n. 25011/2014 del 25 novembre 2014, delle Sezioni Riunite) ha chiarito che questa materia non attiene alla mera erogazione di un servizio pubblico (riservata al giudice amministrativo) ma è parte integrante del riconoscimento dei diritti della persona, e della garanzia che ai disabili sia garantita l’inclusione sociale.

L’Amministrazione dunque non ha margini di discrezionalità nel modificare l’attribuzione delle ore di Sostegno scolastico quale è stabilita, dal “Gruppo di lavoro per l’integrazione degli handicappati”, con il Piano Educativo Individualizzato. Dunque in tale materia, non esiste la giurisdizione esclusiva (in materia di servizi pubblici) del giudice amministrativo.

Il piano educativo individualizzato per il sostegno scolastico dell’alunno in situazione di handicap, una volta elaborato con il concorso degli insegnanti e degli operatori della sanità pubblica, comporta l’obbligo dell’amministrazione scolastica – priva di potere discrezione a rimodulare la misura del supporto integrativo in ragione della scarsità di risorse disponibili per il servizio – di apprestare gli interventi corrispondenti alle esigenze rilevate.

Le problematiche economiche, quindi, non possono legittimare l’omissione o l’insufficienza della misura del supporto integrativo che è lesiva del diritto dell’alunno disabile ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, determinando – in assenza di una corrispondente contrazione dell’offerta formativa per gli altri allievi – una discriminazione indiretta, per la cui repressione è comunque competente il giudice ordinario.

Centro di Documentazione Giuridica – La pensione di invalidità civile non spetta ai non vedenti che lavorano, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La pensione di invalidità civile per non vedenti spetta solo a chi si trovi in stato di bisogno economico. Pertanto il non vedente, assunto come centralinista, non ha diritto alla pensione di invalidità, così ha deciso la Corte di Cassazione, sez. Lavoro, il 9/4/2015, con sentenza n. 7151.
La Corte interviene nuovamente sulla spinosa questione della sospensione del trattamento pensionistico di invalidità per superamento dei limiti di reddito da lavoro previsti dalla legge.
Negli ultimi tempi la Corte di cassazione ha cercato di fissare con sempre maggior incisività alcuni punti fermi nell’interpretazione di quelle regole che – nella giungla normativa della previdenza pubblica – definiscono (o cercano di definire) i requisiti necessari all’ottenimento di prestazioni assistenziali o previdenziali da parte dello Stato.
La recente sentenza dichiara legittima la sospensione disposta dall’Inps della pensione di invalidità ad un non vedente assunto come centralinista.
Secondo la Corte di cassazione ( conformemente a quanto statuito con precedente sentenza Cass. civ., 12.02.2015, n. 2812) la pensione non reversibile per i ciechi civili (assoluti o parziali) di cui agli artt. 7 e 8 della L. 66/1962, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, co. 1, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto.
Per la Corte, dunque, il diritto dei ciechi civili alla pensione non reversibile è tuttora subordinato – diversamente da quanto previsto per l’indennità di accompagnamento a favore dei ciechi assoluti – alla sussistenza di  uno«stato di bisogno», individuato nella titolarità di redditi assoggettabili all’imposta sul reddito per le persone fisiche di ammontare inferiore ad una determinata soglia.
La pensione non reversibile del cieco civile rientra, quindi, tra le prestazioni assistenziali di cui al comma 1 dell’art 38 Cost. e non sono applicabili le norme dettate per la pensione di invalidità erogata dall’INPS che consentono, invece,  attesa la sua  natura previdenziale, l’erogazione della pensione INPS in favore dei ciechi che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta interpretazione il cui fondamento deve rinvenirsi nel secondo comma dell’art. 38 Cost. e tese a favorire il reinserimento del pensionato non vedente nel mondo del lavoro.
Segue il testo della sentenza.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, 9/4/2015, n. 7151
(Omissis)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 16 febbraio 2009, la Corte d’Appello di Salerno, confermava la decisione con cui il Tribunale di Vallo Della Lucania, in accoglimento della domanda proposta da L.M. nei confronti dell’INPS, volta ad ottenere, in quanto non vedente, il riconoscimento del diritto al ripristino del trattamento pensionistico di invalidità sospeso dall’Istituto, a seguito della sua assunzione come centralinista, a motivo del superamento dei limiti di reddito da lavoro previsti dalla legge, dichiarava sussistere il diritto a pensione senza integrazione al minimo e condannava l’Istituto al pagamento dei ratei maturati a decorrere dal 28.9.1994, oltre interessi.
La decisione della Corte territoriale discende dalla ritenuta applicabilità alla fattispecie dell’art. 8, comma 1 bis, l. n. 638/1983 e della norma di cui all’art. 68, 1. n. 153/1969, ivi richiamata, che, con riferimento ai soggetti affetti da cecità totale, stabilisce che il riacquisto di una capacità di guadagno, nonché di un reddito da lavoro anche alto, non comporta la perdita della pensione, operando il requisito reddituale di cui all’art. 6 1. n. 638/1983 con esclusivo riferimento al diritto all’integrazione al minimo della pensione medesima.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’INPS,
affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso il M.
Entrambe le parti hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
I due motivi cui l’INPS affida l’impugnazione proposta sono entrambi intesi a censurare l’unica statuizione resa dalla Corte territoriale sulla base di un percorso argomentativo articolato su due proposizioni, la prima, secondo cui la deroga, introdotta per i non vedenti dal combinato disposto degli artt. 6 e 8 1. n. 638/1983 e dell’art. 68 1. n. 153/1969, alla regola generale della non cumulabilità della pensione di invalidità con il reddito da lavoro riguarda esclusivamente la pensione di invalidità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (ovvero quella spettante ai non vedenti che, nonostante la grave menomazione invalidante hanno svolto attività lavorativa e versato i relativi contributi previdenziali) e non una prestazione di natura assistenziale quale la pensione in favore dei ciechi civili prevista dalla legge 10 febbraio 1962, n. 66; la seconda, per la quale se, ai sensi dell’art. 6 d.l. n. 30/1974 convertito dalla legge 114/1974 e successivamente dell’art. 14 septies d.l. n. 663/1979 convertito dalla legge n. 33/1980, il diritto dei ciechi civili alla pensione reversibile è rimasto subordinato alla sussistenza di uno stato di bisogno quale individuato dall’art. 5 1. n. 382/1970 non è possibile estendere la deroga di cui sopra essendo questa finalizzata a consentire al pensionato di invalidità a carico dell’a.g.o. di conservare, la pensione già ottenuta in virtù del versamento dei contributi assicurativi nell’ipotesi di svolgimento di un’attività lavorativa, proposizioni cui corrispondono i formulati motivi appunto intesi a denunciare, il primo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 6 e 8 1. n. 638/1983 e dell’art. 68 1. n. 153/1969 in relazione all’art 12 delle preleggi, il secondo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 in relazione all’art. 5 1. n. 382/1970 e all’art. 14 septies d.l. n. 663/1979 convertito dalla legge n. 33/1980, come interpretato dalla legge n. 600/1984. Entrambi i motivi, che, per quanto detto, è qui opportuno trattare congiuntamente, devono ritenersi fondati.
Questa Corte ha in materia più volte osservato che il diritto dei ciechi civili alla cosiddetta pensione non reversibile (avente una funzione assistenziale), introdotto dalla legge 10 febbraio 1962 n. 66, è rimasto subordinato, diversamente da quello all’indennità di accompagnamento a favore dei ciechi assoluti, alla sussistenza di uno stato di bisogno, individuato dall’art. 5 della legge n. 382 del 1970 nella non iscrizione nei ruoli per l’imposta complementare sui redditi e successivamente nel possesso di redditi assoggettabili all’imposta sul reddito delle persone fisiche di un ammontare inferiore a un certo limite (art. 6 D.L. n. 30 del 1974, convertito dalla legge n. 114 del 1974, e poi art. 14 septies del D.L. n. 663 del 1979, convertito con modificazioni dalla legge n. 33 del 1980), Cass. n.10335\00, Cass. n. 14811\O1, Cass. n. 24192\13.
In tale ultima pronuncia è stato evidenziato che la pensione non reversibile (avente natura assistenziale) per i ciechi civili assoluti di cui all’art. 7 legge 10 febbraio 1962, n. 66, è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, primo comma, Cost., con conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 di conversione del d.l. del 30 gennaio 1971, n. 5, dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’art. 68 della legge 30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata dall’INPS, sia l’art. 8, comma 1 bis, del d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni in legge 11 novembre 1983, n. 638, che consentono l’erogazione della pensione INPS in favore dei ciechi (avente natura previdenziale) che abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta interpretazione,
[…]il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione analogica. Nello stesso Cass. n. 8752\14, Cass. ord. nn. 24003-2401 1\14, nn. 24022-24026\14, sicché il principio può dirsi consolidato.
In tali ultime pronunce la Corte ha ribadito, valorizzando la natura di prestazione assistenziale della pensione non reversibile per i ciechi assoluti, che ad essa non possono applicarsi le disposizioni, quali la L. n. 153 del 1969, art. 68 (come, del resto, quella di cui al R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2) e il D.L. n. 463 del 1983, art. 8, comma 1 bis, dettate nella materia delle prestazioni previdenziali erogate dall’I.N.P.S. ed a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, in quanto presuppongono un rapporto contributivo (in particolare il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 9, fa riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando siano maturati determinati requisiti contributivi) ed hanno quale presupposto non uno stato di invalidità generica bensì di invalidità lavorativa. 4.-Il ricorso deve pertanto accogliersi, la sentenza impugnata cassarsi e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa viene decisa nel merito direttamente da questa Corte, con il rigetto della domanda proposta dal M..
Le alterne fasi del giudizio ed il solo recente stabilizzarsi dell’orientamento di legittimità, consigliano la compensazione delle spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dal M. in primo grado. Compensa le spese dell’intero processo.
(Omissis)

Paolo Colombo

Centro di Documentazione Giuridica – Indennità di accompagnamento spetta anche nei periodi di ricovero, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La prestazione assistenziale dell’indennità di accompagnamento viene riconosciuta ed erogata  in presenza di una condizione di inabilità e sempre che il soggetto versi nell’impossibilità di deambulare o di attendere agli atti quotidiani della vita senza continua assistenza.
L’ INPS con il messaggio n. 18291 del 26 settembre 2011 ha precisato che tale indennità non va riconosciuta agli invalidi civili gravi ricoverati gratuitamente in istituto e in caso di ricovero di lunga degenza o per fini riabilitativi.
Dunque il ricovero assume rilievo ai fini dell’incompatibilità con l’erogazione dell’indennità solo se ha natura contingente, cioè legato alla cura delle patologie rilevanti ai fini dell’assegnazione dell’indennità e deve assicurare tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita.
Invece, nel caso in cui l’assistenza al disabile è garantita da altri soggetti (familiari, badanti etc.) il ricovero non si pone come elemento ostativo all’erogazione dell’indennità.
In tal caso però occorre che la necessità di assistenza da parte di un soggetto terzo sia dichiarata dall’Istituto che ospita l’invalido.
Frequenti, comunque, sono i casi in cui l’INPS, richiede la restituzione delle somme corrisposte a titolo di indennità di accompagnamento ritenendole indebitamente percepite dal disabile ricoverato.
La modalità di restituzione adottata dall’Inps è quella propria dell’ indebito oggettivo (art.2033 c.c.), secondo la cui disciplina chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere (avere indietro) ciò che ha pagato.
A riguardo è doveroso porre in evidenza che la Suprema Corte di Cassazione è di diverso orientamento.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2270 del 2007, è  intervenuta sul tema dell’ indennità di accompagnamento affermando che il ricovero presso un Ospedale pubblico non costituisce di per sé l’equivalente del ricovero in istituto, al quale fa riferimento l’art.1 Legge n. 18/80, che esclude dall’indennità di accompagnamento gli invalidi civili ricoverati gratuitamente in istituto.
Il beneficio, perciò può essere concesso alla persona invalida anche durante il ricovero in ospedale, dove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’Ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana.
Alla sentenza del 2007 ne sono seguite altre tutte conformi (cfr Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., 04-04-2013, n. 8227, e Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 03-12-2010, n. 24677 ) nelle quali si è ribadito che il ricovero presso un ospedale pubblico non costituisce di per sé l’equivalente del ricovero in istituto, al quale fa riferimento l´ art. 1 della legge n. 18 del 1980 che esclude dall’indennità di accompagnamento gli “invalidi civili ricoverati gratuitamente in istituto” e che il beneficio, invece, è concesso alla persona invalida anche durante il ricovero in ospedale, dove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana.
Di seguito il testo integrale delle sentenze citate.

Corte di Cassazione – Sezione lavoro Sentenza del 2 febbraio 2007 n. 2270
Invalido grave ricoverato presso un ospedale pubblico – diritto all’indennità di accompagnamento
SENTENZA
Svolgimento del processo
1. P.M., nata il (OMISSIS), versa dal 1986 in stato di coma profondo da decerebrazione ed è stata continuativamente e gratuitamente ricoverata in ospedale. Il padre e tutore ha chiesto l’indennità di accompagnamento[1], che è stata riconosciuta in via amministrativa con decorrenza 1.4.1989. Successivamente, essendo emerso che la P. era ricoverata in permanenza presso il Policlinico, il Prefetto revocava la concessione dell’indennità in parola con provvedimento in data 12.6.2000 ed invitava il P. a restituire quanto riscosso a far tempo dal 1.2.1995. Con ricorso depositato in data 6.11.2000, P.C. chiedeva che venisse riconosciuto il diritto alla prestazione “de qua”.
2. Previa costituzione ed opposizione dell’INPS, il Tribunale di Verona accoglieva la domanda attrice, ritenendo che nella specie il ricovero in un ospedale non escludeva la necessità di ulteriore assistenza, specie di tipo affettivo e psicologico. Proponeva appello l’INPS e la Corte di Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta dall’attore P. e lo condannava alla restituzione dei ratei indebitamente percepiti. La Corte di Appello così motivava: la legge n. 18 del 1980, art. 1[1], prevede la corresponsione dell’indennità di accompagnamento in favore degli invalidi civili che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, necessitano di assistenza continua; tale ipotesi ricorre indubbiamente nella fattispecie; il comma 3 della norma citata prevede peraltro l’esclusione dell’erogazione nel caso di invalidi civili gravi, ricoverati gratuitamente in istituto; l’appellata si trova da oltre un quindicennio continuativamente e gratuitamente ricoverata presso un reparto ospedaliero; è pertanto fondato l’appello dell’INPS, dato che la norma non lascia adito a dubbi circa la non erogabilità della prestazione in ipotesi di lungo-degenze in strutture pubbliche ospedaliere; non rileva la volontà o la necessità dei familiari di essere vicini alla figlia, per sopperire ad eventuali carenze del personale o per cercare di stimolare emotivamente la paziente; la previsione dell’indennità di accompagnamento risponde ad esigenze diverse da quelle ritenute dal giudice, per le quali soccorrono altri istituti (pensione di inabilità); deve porsi in diritto la questione se il ricovero gratuito in struttura pubblica costituisca requisito essenziale del diritto all’indennità, ovvero elemento esterno che impedisce l’erogazione della stessa per il tempo in cui l’inabile sia ricoverato a carico dell’erario; nella fattispecie detta questione è irrilevante, posto che non è possibile formulare sicura prognosi circa l’uscita dallo stato di coma.
3. Ha proposto ricorso per Cassazione P.C., nella spiegata qualità, deducendo un motivo. L’INPS si è costituito con procura e non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
4. Con l’unico motivo del ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 [2] della leggen. 18 del 1980, art. 1, comma 3 [1], nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art.360 c.p.c., n. 5 [2]: la Corte di Appello ha fondato la propria decisione su di una interpretazione meramente letterale della norma, la quale intende invece incoraggiare i familiari all’assistenza, ma non osta al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento quando l’invalido, pur ricoverato in ospedale e curato, non è totalmente assistito dalla struttura e quindi necessita della continua assistenza anche dei familiari per sopravvivere. Detti familiari, in ospedale come a domicilio, dovranno pur sempre pagare infermieri ed assistenti, abbandonare il lavoro, effettuare un sostegno economico aggiuntivo.
5. Il ricorso è fondato nei sensi di cui “infra”. La legge n. 18 del1980, art. 1, comma 3 [1], sopra citata dispone che sono esclusi dall’indennità di accompagnamento gli “invalidi civili gravi ricoverati gratuitamente in istituto”. Il problema che si pone nella presente fattispecie è se un ricovero presso un ospedale pubblico possa costituire l’equivalente del ricovero gratuito in istituto, essendo lecito il dubbio se il legislatore, nel sancire la ricordata esclusione dall’indennità, abbia inteso significare che l’indennità di accompagnamento non è erogata in caso di “ricovero presso qualsiasi struttura” di cura ovvero se la citata erogazione venga meno solo in caso di ricovero presso un “istituto”, vale a dire una struttura in cui, oltre alle cure mediche, venga garantita al paziente totalmente invalido e non autosufficiente (come nella specie è pacifico) una assistenza completa, anche di carattere personale, continuativa ed efficiente in ordine a tutti gli “atti quotidiani della vita” cui l’indennità in parola è destinata a fare fronte, tale da rendere superflua la presenza dei familiari o di terze persone.
6. L’esame della giurisprudenza di questa Corte di Cassazione induce a ritenere preferibile questa seconda tesi. “Il ricovero di un inabile totale, sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, in una struttura pubblica non in grado di prestargli tutte le cure necessarie per un’adeguata assistenza infermieristica può giustificare, in via eccezionale rispetto a quanto testualmente dispone la legge n. 18 del 1980, art. 1, il riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento anche per il periodo di ricovero soltanto nell’ipotesi in cui, proprio a causa di tale necessaria integrazione, l’assistito abbia subito un danno ingiusto perché costretto a retribuire il cosiddetto infermiere privato”: Cass. 2.11.1998 n. 10946 [3]. Il principio è ripreso da Cass. 8.4.2002 n. 5017 [3], la quale ha riconosciuto l’indennità di accompagnamento in favore di un invalido psichico, necessitante di continuo controllo anche con eventuale ricovero presso appositi istituti. Più in generale, Cass. 20.7.1995 n. 7917 [3], prevede che la condizione del non-ricovero in istituto si pone come elemento esterno alla fattispecie e non osta al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento per il tempo in cui il disabile sia ricoverato in istituto e non abbisogni dell’accompagnatore.
7. Sulla scorta di tali principi, va dunque affermato che il ricovero presso un ospedale pubblico non costituisce “sic et simpliciter” l’equivalente del “ricovero in istituto” ai sensi della legge n. 18 del 1980, art. 1, comma3 [1] e che pertanto l’indennità di accompagnamento può spettare all’invalido civile grave anche durante il ricovero in ospedale, ove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana.
8. Tale indagine è mancata nel processo di appello. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata ed il processo va rinviato alla Corte di Appello di Bologna, la quale dovrà uniformarsi al principio di cui al paragrafo che precede e provvederà altresì alle statuizioni circa le spese.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Bologna.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 dicembre 2006. Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2007.
Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., 04-04-2013, n. 8227

PENSIONI
Assegni di accompagnamento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LA TERZA Maura – Presidente –
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –
Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –
Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 8142/2011 proposto da:
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (OMISSIS), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCI MAURO, ANTONELLA PATTERI, CLEMENTINA PULLI, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
T.A. nella qualità di legale rappresentante nonchè madre e tutore della figlia P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA PAMPHILI 59, presso lo studio dell’avv. SALAFIA ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. DEL GIUDICE UMBERTO, giusta mandato speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 826/2010 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA del 21.9.2010, depositata il 27/10/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 31/01/2013 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSANA MANCINO;
udito per il ricorrente l’Avvocato Emanuela Capannolo (per delega avv. Mauro Ricci) che si riporta agli scritti;
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. MAURIZIO VELARDI che nulla osserva rispetto alla relazione scritta.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 31 gennaio 2013, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
2. “La Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 27.10.2010, decidendo in sede di rinvio, ha confermato la sentenza di prime cure che, in accoglimento della domanda svolta dal tutore di P. M., ha dichiarato l’illegittimità della revoca dell’indennità di accompagnamento erogata dall’INPS in favore della predetta P., lungodegente in struttura pubblica in stato di coma profondo da decerebrazione;
3. ricorre l’INPS con due motivi dolendosi che, in violazione dell’art. 384 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), la Corte di merito non si sia uniformata alla statuizione della Corte di cassazione non avendo esperito, a tanto sollecitata dalla S.C., alcuna attività istruttoria atta a dimostrare che le prestazioni assicurate dall’ospedale alla paziente non esaurissero tutte le forme di assistenza necessitate per la vita quotidiana; ed inoltre che, in violazione dell’art. 2697 c.c. e L. n. 18 del 1980, art. 1 e con insufficiente motivazione, fosse rimasto sfornito di prova che l’ospedale pubblico non fornisse tutte le forme di assistenza di cui necessitava la paziente e che quest’ultima avesse dovuto sostenere personalmente oneri economici per usufruire di assistenza privata integrativa di quella resa dalla struttura pubblica;
4. l’intimata, nella predetta qualità, ha resistito con controricorso;
5. il ricorso è manifestamente fondato per non essersi la Corte di merito uniformata alla sentenza rescindente omettendo la verifica giudiziale dell’applicabilità, alla fattispecie, del principio enunciato e dipanando la motivazione sul mero rilievo che il genitore esercente la tutela sulla figlia in stato di coma profondo da decerebrazione avesse dichiarato di aver cessato ogni attività lavorativa per assistere continuativamente la congiunta;
6. invero, la Corte di legittimità, con sentenza n. 2270 del 2007, decidendo sul gravame avverso la decisione di primo grado, ha affermato che: “il ricovero presso un ospedale pubblico non costituisce sic et simpliciter l’equivalente del ricovero in istituto” ai sensi della L. n. 18 del 1980, art. 1, comma 3 e che pertanto l’indennità di accompagnamento può spettare all’invalido civile grave anche durante il ricovero in ospedale, ove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza di cui il paziente necessita per la vita quotidiana. Tale indagine è mancata nel processo di appello”. Di qui, pertanto, la cassazione con rinvio della decisione sul gravame ad altra Corte d’appello che ha statuito nei termini già richiamati;
7. come affermato in più occasioni da questa Corte, la sentenza rescindente, indicando i punti specifici di carenza della motivazione, conserva al giudice di rinvio le facoltà che gli competevano originariamente quale giudice di merito, relative ai poteri di indagine e di valutazione della prova, nell’ambito dello specifico capo della sentenza di annullamento, anche se, nel rinnovare il giudizio, egli è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, in sede di esame della coerenza del discorso giustificativo, evitando di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (cfr., ex plurimis, Cass. 13719/2006); nè il giudice del rinvio, al quale la S.C. abbia demandato, come nella specie, il compito di procedere ad ulteriori accertamenti di fatto, può sottrarvisi (v., Cass. 3186/2012)”.
8. Sono seguite le rituali comunicazione e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
9. Dalla riferita relazione il Collegio dissente sulla base dei rilievi di seguito esposti.
10. L’accertamento richiesto dalla sentenza rescindente di questa Corte di legittimità (Cass. n. 2270 del 2007 cit.) è stato, invero, svolto dalla Corte territoriale che, alla stregua delle emergenze istruttorie, ha apprezzato le dichiarazioni rese dal genitore esercente la tutela, il quale aveva espresso di essere stato costretto a cessare ogni attività lavorativa per stare accanto alla figlia la quale, sebbene degente in struttura gratuita, necessitava, proprio in considerazione dello stato d’irreversibilità patologico, di assistenza continua finalizzata ad essenziali esigenze primarie, fra le quali le manovre di spostamento sul letto di degenza al fine di evitare piaghe da decubito e ogni ulteriore incombenza connessa allo stato di totale immobilismo e all’incapacità di gestire funzioni biologiche essenziali.
11. Ebbene, posto che l’accertamento del Giudice di merito, che attiene alla valutazione dei mezzi di prova, è incensurabile nel giudizio di legittimità se compiutamente e coerentemente motivato, nel caso di specie l’accertamento della Corte territoriale, nei termini appena esposti, non è adeguatamente censurato dall’Istituto pubblico di previdenza che non rimette in discussione le congrue e ragionevoli argomentazioni della Corte territoriale a sostegno dell’accertamento, ma solo si duole che il Giudice del gravame non abbia svolto, in ottemperanza al dictum della sentenza rescindente, alcun accertamento, formulando rilievi critici che non si collocano sul piano argomentativo della sentenza impugnata per svelarne insufficienza o illogicità motivazionale.
12. L’INPS, pertanto, non ha specificamente criticato l’apprezzamento della Corte territoriale che, all’esito dell’accertata assistenza continuativa del genitore nella forma della presenza costante accanto alla figlia in stato vegetativo, ha ritenuto tali modalità di accudimento travalicare quanto la struttura pubblica potesse assicurare.
13. Il pur sintetico iter argomentativo che ha condotto i Giudici del gravame, muovendo da tale accertamento, verso l’apprezzamento della necessità, per il genitore, di assicurare quel quid pluris non garantito dall’ospedale pubblico alla congiunta lungodegente in stato di coma profondo da decerebrazione, non risulta efficacemente censurato.
14. In particolare, nella vicenda all’esame del Collegio è rimasto non specificamente censurato proprio l’apprezzamento della Corte territoriale dell’emergenza istruttoria inerente alle necessità di assistenza e accudimento costanti a cagione delle quali il genitore si era risoluto ad abbandonare l’attività lavorativa per essere totalmente dedito alla cura della figlia nel predetto stato vegetativo.
15. Risulta, pertanto, assorbito il mezzo d’impugnazione imperniato sull’inottemperanza dell’onere, a carico del tutore dell’assistita, di provare la necessità di aver dovuto sostenere, ai fini dell’assistenza costante e continuativa, spese personali aggiuntive rispetto all’assistenza apprestata dalla struttura pubblica.
16. In definitiva il ricorso, per essere manifestamente infondato, va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’INPS al pagamento delle spese, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 1.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 03-12-2010, n. 24677
Fatto – Diritto P.Q.M.
PENSIONI
Assegni di accompagnamento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente
Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Consigliere
Dott. LA TERZA Maura – Consigliere
Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere
Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 19666/2009 proposto da:
S.D. (OMISSIS), n.q. di tutore del minore S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA 2, presso lo studio dell’avvocato ASSENNATO Giuseppe Sante, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;
– intimato –
e contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati VALENTE NICOLA, RICCIO ALESSANDRO, PULLI CLEMENTINA, giusta procura speciale in calce al ricorso notificato;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1029/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO del 10/06/08, depositata il 18/09/2008;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/09/2010 dal Consigliere Relatore Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;
udito l’Avvocato Assennato Giuseppe Sante, difensore del ricorrente che ha concluso per l’accoglimento del ricorso perché manifestamente fondato;
è presente il P.G. in persona del Dott. ENNIO ATTILIO SEPE che ha concluso per la remissione alla p.u. ed in subordine si riporta alla relazione scritta.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte di Appello di Milano, con sentenza depositata il 18 settembre 2008, ha confermato la sentenza del Tribunale di Sondrio ed ha respinto la domanda presentata il 29.6.2005 da S.D., nella qualità di tutore del minore S.A. (nato il (OMISSIS)), intesa ad ottenere la condanna dell’Inps e del Ministero dell’Economia al pagamento dell’indennità di accompagnamento (ottenuta a decorrere dal 1 luglio 2003) anche per il periodo dal 1 aprile 2002 al 30 giungo 2003, durante il quale il minore era stato ricoverato prima presso il reparto di rianimazione degli OO.RR. di (OMISSIS) e successivamente presso il reparto di anestesia e rianimazione dell’Ospedale di (OMISSIS) a seguito di gravi lesioni (lesioni alla colonna vertebrale, tetraplegia e lesioni cerebrali) riportate in un incidente stradale nel quale aveva perduto entrambi i genitori.
A sostegno della decisione la Corte territoriale ha rilevato che il ricorrente non aveva addotto elementi sufficienti a dimostrare che il minore durante il ricovero in rianimazione avesse avuto necessità di una assistenza familiare continua aggiuntiva a quella prestata dalla struttura ospedaliera.
Avverso detta sentenza il S. ha proposto ricorso con un motivo con il quale, lamentando difetto di motivazione, si duole che il giudice del gravame abbia respinto la domanda senza espletare una CTU diretta ad accertare se il minore avesse avuto o meno necessità di una assistenza familiare continua durante il ricovero.
L’INPS ha depositato procura ed il Ministero dell’Economia non si è costituito. Il ricorrente ha depositato memoria.
Ritiene la Corte che il ricorso non sia meritevole di accoglimento.
La L. 11 febbraio 1980, n. 18, art. 1, riconosce il diritto all’indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili “che si trovano nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di una assistenza continua”. Il legislatore ha inteso così sopperire, a prescindere da ogni limite reddituale, alle necessità materiali dei totalmente invalidi che non sono in grado di muoversi autonomamente senza grave pregiudizio per la loro persona e per gli altri e che non sono in grado di compiere da soli gli atti quotidiani della vita, quali mangiare, bere, lavarsi, vestirsi, espletare i bisogni fisiologici. La norma, ispirata al principio solidaristico, ha comunque carattere eccezionale, prescindendo da qualsivoglia contribuzione e gravando sulla fiscalità generale, e non può essere interpretata in modo estensivo. In particolare essa non può essere estesa fino a coprire anche il mero supporto psicologico e affettivo di cui i predetti invalidi hanno pure bisogno.
Escluso quindi che la necessità di un supporto morale e affettivo possa dare diritto alla indennità in questione, resta da vedere se ed entro quali limiti l’indennità medesima spetti agli invalidi durante il periodo in cui sono ricoverati in una struttura ospedaliera, anche perchè l’ultimo comma della norma richiamata esclude espressamente dall’indennità gli invalidi civili gravi ricoverati gratuitamente in “istituto”.
Anche a prescindere dalla questione, pure affrontata da questa Corte (Cass. n. 2270/2007), se gli Ospedali pubblici del SSN, con prestazioni prevalentemente gratuite, rientrino o meno fra “gli istituti” che non danno diritto all’indennità, va comunque rimarcato che questa Corte ha già avuto modo di precisare che l’indennità di accompagnamento di cui alla L. n. 18 del 1980, può spettare anche all’invalido grave durante il ricovero in ospedale pubblico, ove si dimostri che le prestazioni assicurate dall’ospedale medesimo non esauriscono tutte le forme di assistenza materiale di cui il paziente necessita per la vita quotidiana (Cass. n. 25569/2008, Cass. n. 2270/2007) – vale a dire, oltre all’assistenza medica, anche una assistenza di carattere personale, continuativa ed efficiente, idonea a sopperire alle necessità quotidiane di vita del paziente sopra specificate – e richiedono per far fronte alle necessità del ricoverato l’intervento di un familiare o di un terzo incaricato dalla famiglia (Cass. n. 5017/2002).
Nella specie il ricorrente non ha né allegato né provato circostanze di fatto dalle quali potersi ricavare la necessità per l’inabile di una assistenza (materiale e non meramente affettiva) ulteriore rispetto a quella fornita dagli Ospedali pubblici durante il suo ricovero in un reparto di rianimazione (reparto notoriamente accessibile solo al personale ospedaliere). Né rientra concettualmente nelle necessità cui la legge intende sopperire con l’indennità in questione anche “l’apprendimento (da parte del familiare o di un terzo) delle metodiche assistenziali più corrette in previsione della domiciliazione”.
Il ricorrente non ha ragione di lamentarsi per il mancato espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio da parte del giudice di appello, visto che l’appellante non ha neppure indicato quali fossero i supporti materiali necessari all’invalido che gli Ospedali non erano in grado di assicurare, esclusa per quanto sopra detto la rilevanza dei supporti meramente affettivi e psicologici. Al riguardo è appena il caso di ricordare che per costante giurisprudenza la consulenza tecnica non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negata da giudice quando la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi o fatti non provati (Cass. n. 3191/2006, n. 26083/2005, n. 16256/2004 ed altre conformi).
Per tutte le considerazioni sopra svolte il ricorso, dunque, deve essere respinto. Nulla per le spese del giudizio di cassazione, poiché gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Centro di Documentazione Giuridica – Collocamento al lavoro dei centralinisti non vedenti, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro, con sentenza n. 9215 del 7 maggio 2015 è intervenuta in materia di collocamento al lavoro dei centralinisti non vedenti.
Con tale sentenza, la Suprema Corte ha ribadito lo scopo della legge 29 marzo 1985 n. 113, articoli 3 e seguenti sul collocamento dei centralinisti non vedenti, che è quello di garantire, in funzione di solidarietà sociale, l’assunzione di centralinisti non vedenti presso le strutture (private o pubbliche) che siano dotate di impianti telefonici per il quali le norme tecniche prevedano l’impiego di uno o più posti di operatore o che comunque siano dotati di uno o più posti di operatore; ha nuovamente sottolineato l’importanza della comunicazione da parte della Telecom all’ufficio provinciale del lavoro che lo richieda, l’elenco dei datori di lavoro presso i quali sono installati centralini che comportino l’obbligo di assunzione e ha quindi confermato la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno al lavoratore non vedente che aveva l’obbligo di assumere in qualità di centralinista non vedente.
Segue il testo integrale della sentenza.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-05-2015, n. 9215

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STILE Paolo – Presidente –
Dott. VENUTI Pietro – rel. Consigliere –
Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1602-2009 proposto da:
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E RICERCA C.F. (OMISSIS), LICEO CLASSICO STATALE G. MELI DI PALERMO, in persona del Ministro e del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;
– ricorrenti –
contro
S.G. C.F. (OMISSIS);
– intimato –
Nonché da:
S.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 60, presso lo studio dell’avvocato LONGO RUGGERO, rappresentato e difeso dall’avvocato PATANELLA SILVANA, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E RICERCA C.F. (OMISSIS), LICEO CLASSICO STATALE G. MELI DI PALERMO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1574/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 07/01/2008 R.G.N. 2120/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/01/2015 dal Consigliere Dott. PIETRO VENUTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 5489/05, in accoglimento della domanda proposta da S.G. nei confronti del Ministero dell’istruzione e del Liceo Classico statale “G. Meli” di Palermo, dichiarava il diritto del ricorrente, in qualità di centralinista non vedente, all’assunzione a decorrere dall’8 aprile 2003 presso il liceo classico anzidetto, e condannava quest’ultimo a corrispondere al S., a titolo di risarcimento del danno, una somma pari all’intero trattamento economico spettantegli a decorrere dalla data dianzi indicata e sino alla data della sentenza.
Su impugnazione principale del Ministero e del Liceo classico, ed incidentale del S., la Corte d’appello di Palermo, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava la decisione di primo grado nella parte in cui era stato riconosciuto il diritto del lavoratore all’assunzione con decorrenza dall’8 aprile 2003, ma condannava, in luogo del Liceo classico, il Ministero al pagamento delle retribuzioni a decorrere da tale data e sino alla data della sentenza della stessa Corte, anzichè sino alla sentenza di primo grado.
Ha osservato la Corte di merito che il S. aveva diritto all’assunzione ai sensi della L. n. 113 del 1985, che pone a carico dei datori di lavoro pubblici o privati l’obbligo di assumere i centralinisti telefonici non vedenti utilmente collocati in graduatoria, qualora dispongano di centralini telefonici per i quali le norme tecniche prevedano l’impiego di uno o più posti di operatore, prescindendo dalla previsione in organico di tale qualifica professionale; che non avendo il liceo “G. Meli” proceduto all’assunzione, l’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione aveva avviato d’ufficio il S., posto che presso quel liceo vi era un siffatto centralino telefonico, come era stato confermato da Telecom Italia S.p.A. – tenuto per legge ad informare detto Ufficio -, a nulla rilevando se tale centralino telefonico potesse funzionare manualmente o potesse gestire il traffico telefonico attraverso sistemi di collegamento automatici o se il funzionamento dello stesso fosse estremamente semplice; che tali circostanze peraltro avrebbero dovuto essere dimostrate dall’amministrazione, la quale, al riguardo, non aveva fornito alcuna prova.
Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso il Ministero. Il lavoratore resiste con controricorso, proponendo ricorso incidentale e depositando successivamente memoria ex art. 378 cod. proc, civ.

Motivi della decisione

1. Il ricorso principale è articolato in quattro motivi, quello incidentale in un solo motivo. A tutti fanno seguito i relativi quesiti di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., non più in vigore ma applicabile ratione temporis.
2. Con il primo motivo del ricorso principale il Ministero, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2696 cod. civ., della L. 29 marzo 1985, n. 113, artt. 3 e 6 deduce che presupposto per l’applicazione di tale legge è che sussista un centralino per il quale le norme tecniche prevedano l’impiego di uno o più posti di operatore o che comunque siano dotati di uno o più posti di operatore. Tale dato, aggiunge, era stato contestato dall’Amministrazione fin dal primo grado del giudizio, negandosi una postazione di tal fatta presso l’istituto scolastico, ma la Corte d’appello ha disatteso questo assunto, rilevando che la circostanza era rimasta del tutto indimostrata, senza considerare che al riguardo la prova doveva essere fornita dal lavoratore, trattandosi di un fatto costitutivo del diritto, mentre spettava all’Amministrazione dimostrare eventuali fatti impeditivi. Tale prova avrebbe dovuto riguardare anche l’esistenza presso la scuola di un impianto telefonico per il cui funzionamento occorreva necessariamente l’attività di un operatore specializzato.
3. Con il secondo motivo del ricorso principale, il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, lamenta che il giudice d’appello avrebbe dovuto provvedere d’ufficio agli atti istruttori ritenuti necessari a superare l’incertezza sui fatti costitutivi o impeditivi, e quindi indispensabili ai fini della decisione. Al riguardo avrebbe dovuto considerare “la relazione di consulenza tecnica sugli impianti telefonici in dotazione a svariate istituzioni scolastiche, espletata dalla s.p.a. Eunics con relativo verbale di sopralluogo”, ancorchè tale documento fosse stato formato successivamente al giudizio di primo grado.
4. Con il terzo motivo del ricorso principale è denunciata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Ribadisce il ricorrente che l’onere della prova che il centralino avesse le caratteristiche richieste dalla legge per l’assunzione di un non vedente era a carico del lavoratore e che, nonostante ciò, l’Amministrazione aveva chiesto di dimostrare il contrario attraverso la relazione di consulenza redatta dalla ditta Eunics, sopra citata.
La Corte di merito, aggiunge, ha omesso di dare ingresso nel giudizio a tale documento, non facendone menzione nella sentenza.
5. Con il quarto motivo del ricorso principale il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2043 cod. civ., deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha riconosciuto al lavoratore, a titolo risarcitorio, le retribuzioni a decorrere dalla data in cui il lavoratore avrebbe dovuto essere assunto, nonostante il medesimo in tale periodo non avesse svolto attività lavorativa e non avesse dato la prova dei danni subiti.
6. Con l’unico motivo del ricorso incidentale il lavoratore, denunciando violazione di plurime violazioni di legge, lamenta che la Corte di merito abbia limitato la condanna al pagamento delle retribuzioni sino alla data della pronuncia della sentenza. Una volta infatti riconosciuto il diritto all’assunzione, con effetti costitutivi del rapporto, l’obbligo del pagamento del trattamento economico avrebbe dovuto essere posto a carico dell’Amministrazione sino a quando la medesima si fosse resa inadempiente, non ottemperando alla assunzione.
7. I primi tre motivi del ricorso principale, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, non sono fondati.
La L. 29 marzo 1985, n. 113, art. 3 e segg. (Aggiornamento della disciplina del collocamento al lavoro e del rapporto di lavoro dei centralinisti non vedenti, ha lo scopo di garantire, in funzione di solidarietà sociale, l’assunzione di centralinisti non vedenti presso le strutture (private o pubbliche) i che siano dotate di impianti telefonici per i quali le norme tecniche prevedano l’impiego di uno o più posti di operatore o che comunque siano dotati di uno o più posti di operatore.
A tal fine i datori di lavoro che procedono alla installazione o trasformazione di centralini telefonici che comportino l’obbligo di assunzione previsto da detta legge, sono tenuti a darne comunicazione entro sessanta giorni agli uffici provinciali del lavoro, indicando il numero delle linee urbane e dei posti di lavoro di cui sono dotati.
L’art. 5 della legge sopra citata prevede, in particolare, che la società italiana per l’esercizio telefonico, entro sessanta giorni dall’installazione o trasformazione di centralini telefonici che comportino l’obbligo di assunzione, deve comunicare agli uffici provinciali del lavoro competenti per territorio l’operazione avvenuta e le caratteristiche dell’apparecchiatura telefonica ed inoltre che la società anzidetta è tenuta a comunicare, all’ufficio provinciale del lavoro che lo richieda, l’elenco dei datori di lavoro presso i quali sono installati centralini che comportino l’obbligo di assunzione.
E’ altresì previsto (art. 6) che i datori di lavoro pubblici assumano per concorso riservato ai soli non vedenti o con richiesta numerica presentata all’ufficio provinciale del lavoro e che i centralinisti non vedenti hanno diritto all’assunzione se posseggono i requisiti richiesti per le assunzioni dagli ordinamenti delle amministrazioni o enti interessati, salvo il limite di età ed il titolo di studio. Ove i datori di lavoro pubblici non abbiano provveduto all’assunzione entro sei mesi dalla data in cui sorge l’obbligo, l’ufficio provinciale del lavoro li invita a provvedere.
Trascorso un mese l’ufficio provinciale procede all’avviamento d’ufficio.
Come risulta dalla sentenza impugnata Telecom Italia S.p.A. con nota del 7 gennaio 2000 segnalava all’Ufficio provinciale del lavoro l’esistenza presso taluni istituti scolastici di Palermo, tra cui il liceo classico “G. Meli”, di un centralino che aveva le caratteristiche richieste dalla L. n. 113 del 1985, con posto per operatore non vedente. Sulla base di tale segnalazione, l’Ufficio anzidetto invitava l’istituto scolastico a presentare richiesta di avviamento di un centralinista telefonico non vedente, ai sensi dell’art. 6 di detta legge e, a fronte del persistente rifiuto dell’Istituto di procedere a tale richiesta, con lettera in data 8 aprile 2003 avviava d’ufficio al lavoro il S., utilmente iscritto nella graduatoria regionale dei centralisti telefonici non vedenti.
Tali essendo gli elementi acquisiti dalla Corte di merito, del tutto inconsistenti si palesano le censure del ricorrente con riguardo all’onere della prova circa le caratteristiche del centralino telefonico installato presso l’ufficio scolastico in questione.
La prova di tali caratteristiche risultava dalla segnalazione in data 7 gennaio 2000 dalla Telecom, società questa che era tenuta per legge a comunicare all’ufficio provinciale del lavoro l’esistenza di centralini telefonici per i quali sussisteva l’obbligo di assunzione dei centralinisti non vedenti.
La sentenza impugnata, con valutazione di merito non sindacabile in questa sede, ha ritenuto sufficiente detta segnalazione, senza che occorressero ulteriori elementi comprovanti le caratteristiche del centralino in questione.
Da qui la mancata acquisizione in giudizio della “relazione di consulenza tecnica” della S.p.A. Eunics, avente ad oggetto gli impianti telefonici in dotazione a taluni istituti scolastici, documento questo che è stato formato, come dedotto dallo stesso ricorrente, successivamente al giudizio di primo grado e la cui produzione, evidentemente, non è stata ritenuta ammissibile e che comunque non è stato ritenuto indispensabile dal giudice d’appello ai fini della decisione della causa ex art. 437 cod. proc. civ..
Al riguardo non è superfluo ricordare che la valutazione delle prove e, con essa, il controllo sulla loro attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono rimesse al giudice del merito e sono sindacabili in cassazione solo sotto il profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta nell’attribuire valore probatorio ad un elemento emergente dall’istruttoria, piuttosto che ad un altro (Cass. 28 giugno 2006 n. 14972).
Ed ancora, “Nel sistema vigente opera il principio cosiddetto dell’acquisizione della prova, in forza del quale ogni emergenza istruttoria, una volta raccolta, è legittimamente utilizzabile indipendentemente dalla sua provenienza ed il risultato della prova deve essere valutato indipendentemente dalla posizione della parte che l’abbia dedotta” (Cass. 10 agosto 2004 n. 15408).
Quanto poi all’assunto del ricorrente, secondo cui l’obbligo di assunzione non sussiste nell’ipotesi in cui il centralino possa funzionare in automatico e comunque non richieda necessariamente l’esistenza di un operatore, trattasi di circostanza che non risulta dagli atti e che trova smentita nella segnalazione della TELECOM sopra indicata, in base alla quale l’istituto scolastico “G. Meli” rientrava fra quelli muniti di centralino telefonico con posto per operatore non vedente.
Correttamente dunque la Corte territoriale ha ritenuto che ricorressero i requisiti oggettivi e soggettivi previsti per l’assunzione del S..
8. Il quarto motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale del lavoratore vanno esaminati congiuntamente perché connessi.
La sentenza impugnata, nel riconoscere al S. il diritto all’assunzione a decorrere dalla data dell’8 aprile 2003, ha condannato il Ministero dell’Istruzione a corrispondere al medesimo, a titolo risarcitorio, le retribuzioni perdute a decorrere dalla data anzidetta e sino a quella di emissione della sentenza.
La prima di tali due ultime statuizioni va confermata, mentre non ritiene questo Collegio, in accoglimento del ricorso incidentale, di condividere la seconda.
Ed infatti il datore di lavoro che rifiuti ingiustificatamente di assumere il lavoratore avviato è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, a risarcire l’intero pregiudizio patrimoniale che il medesimo ha subito durante tutto il periodo in cui si è protratta l’inadempienza del datore di lavoro.
Tale principio può ritenersi consolidato alla stregua delle numerose pronunce di questa Corte intervenute in materia (cfr. Cass. n. 4953/98; Cass. n. 12516/03; Cass. n. 2402/04; Cass. 15913/04).
Il pregiudizio economico subito dal lavoratore può essere in concreto determinato, senza bisogno di una specifica prova del lavoratore, sulla base del complessivo trattamento retributivo che il lavoratore avrebbe potuto conseguire, ove tempestivamente assunto, mentre spetta al datore di lavoro provare l’aliunde perceptum, oppure la negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione (cfr. Cass. n. 2402/04 cit.).
Non può pertanto limitarsi il diritto del lavoratore alle retribuzioni sino alla data della decisione della sentenza impugnata, evidente essendo che questa spiega effetti, anche dal punto di vista del ristoro delle utilità perdute, sino a quando si protrae l’inadempimento.
Una diversa soluzione porterebbe il lavoratore a dovere esperire ulteriori azioni in caso di prolungato inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di assunzione, ai fini del recupero parziale del credito retributivo man mano maturatosi, evenienza questa che non ricorre nell’ipotesi di condanna del datore di lavoro inadempiente al pagamento delle retribuzioni sino alla effettiva assunzione, statuizione che non trova alcun ostacolo nel sistema e si pone in linea con il principio di economia processuale, che trova fondamento anche nel principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost..
9. In conclusione va respinto il ricorso principale, mentre va accolto quello incidentale.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa, in relazione al ricorso accolto, va decisa nel merito, con la condanna del Ministero dell’Istruzione a corrispondere al S. a titolo risarcitorio, le retribuzioni perdute sino al momento dell’assunzione, con gli accessori di legge, ferme restando le altre statuizioni contenute nella sentenza impugnata, comprese quelle relative alle spese dei giudizi di merito.
Il Ministero ricorrente va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Istruzione, in persona del Ministro pro-tempore, a corrispondere a S. G., a titolo risarcitorio, una somma pari alle retribuzioni perdute sino al momento dell’assunzione, con gli accessori di legge, ferme restando le altre statuizioni comprese quelle relative alle spese dei giudizi di merito.
Condanna il Ministero al pagamento, a favore del S., delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2015.

Centro di Documentazione Giuridica – L’inps conferma il pagamento delle pensioni al primo del mese, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

Dal 1° giugno tutti i pensionati vedranno spostarsi al primo giorno di ciascun mese la data di liquidazione delle prestazioni previdenziali. Lo comunica ufficialmente l’Inps con il messaggio 3519/2015 con il quale l’istituto coordina le novità introdotte di recente dal decreto legge 65/2015.
L’articolo 6 del decreto legge 21 maggio 2015, n. 65 ha stabilito, infatti, che “a decorrere dal 1º giugno 2015, al fine di razionalizzare e uniformare le procedure e i tempi di pagamento delle prestazioni previdenziali corrisposte dall’INPS, i trattamenti pensionistici, gli assegni, le pensioni e le indennità di accompagnamento erogate  agli invalidi civili, nonché le rendite vitalizie dell’INAIL sono posti in pagamento il primo giorno di ciascun mese o il giorno successivo se festivo o non bancabile, con un unico mandato di pagamento ove non esistano cause ostative, eccezion fatta per il mese di  gennaio  2016 in cui il pagamento avviene il secondo giorno bancabile. A decorrere dall’anno 2017, detti pagamenti sono effettuati il secondo giorno bancabile di ciascun mese”.
Tale articolo modifica dunque la previsione contenuta nel comma 302 dell’art.1 della legge 190 del 23 dicembre 2014 (Legge di stabilità) che aveva invece previsto che il pagamento delle pensioni slittasse al 10 del mese per i pensionati che percepivano doppia pensione INPS INPDAP).
L’istituto precisa, pertanto, che a decorrere dalla mensilità di giugno 2015, viene unificata al primo giorno del mese la data di pagamento per tutte le gestioni dell’Istituto, anticipando i pagamenti anche dei trattamenti pensionistici delle gestioni spettacolo e sportivi professionisti che erano effettuati il 10 del mese, e delle gestioni pubbliche che erano effettuati il 16 del mese. La novità, quindi, interesserà anche i titolari delle prestazioni pagate in via “inframensile” che vedranno, nei fatti, allineata la data di pagamento del rateo a quella vigente nelle gestioni Inps dei lavoratori dipendenti. L’effetto armonizzazione è di non poco conto.
A partire dal 1° luglio, poi, i titolari di più trattamenti pensionistici facenti carico a gestioni private, gestioni pubbliche e gestioni spettacolo e sport riceveranno un pagamento unico, sempre al primo di ogni mese, comprendente tutti i trattamenti corrisposti dall’Inps. Ad esempio, quindi, una pensione diretta a carico della gestione Inps sarà pagata assieme ad eventuali ulteriori trattamenti erogati dall’Inps ad altro titolo nei confronti dello stesso beneficiario da altre gestioni (es. pensione di reversibilità).
Nel caso in cui il giorno 1 cada in giorno festivo o non bancabile, il pagamento viene posticipato al primo giorno bancabile successivo. Il pagamento al giorno 1° sarà effettuato sia per le pensioni in pagamento in Italia che per le pensioni in pagamento all’estero, ferma restando la cadenza bimestrale con pagamento posticipato per le pensioni delle gestioni spettacolo e sportivi professionisti corrisposte a beneficiari residenti all’estero. Per le pensioni in pagamento all’estero è stata parificata la sola data di pagamento, in attesa di completare a breve l’unificazione del processo di pagamento delle pensioni estere delle gestioni  pubbliche, dello spettacolo e degli sportivi.

Centro di Documentazione Giuridica – La Cassazione Civile sez. lavoro nuovamente dichiara l’annullabilità del recesso esercitato nei riguardi del lavoratore disabile Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-02-2015, n. 3931, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La Corte di Cassazione Civile Sez. lavoro con sentenza n.3931 è nuovamente intervenuta sul tema del licenziamento del lavoratore disabile.
In tale sentenza ha precisato che l’art. 10, comma 4, della legge 12 marzo 1999, n. 68 – prevedendo l’annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile (o di categoria equiparata) occupato obbligatoriamente “qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva” prevista dal precedente art. 3 della legge – riguarda soltanto il “recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo” e non anche gli altri tipi di recesso datoriale.
Tale decisione è conforme alla precedente sentenza (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 26/06/2009, n. 15080 ) che relativamente allo stesso tema e alla stessa normativa sopra richiamata aveva previsto che il recesso, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo “esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva” – si applica espressamente e in maniera esclusiva ai lavoratori assunti in forza della disciplina dettata in materia di assunzione obbligatoria, senza che, ove la quota di riserva aziendale risulti scoperta, sia computabile nella stessa il personale invalido non assunto obbligatoriamente.
Ne consegue dunque che la norma non si applica al licenziamento disciplinare, nelle sue diverse configurazioni, in conformità con l’idea ispiratrice di tutta la legge n. 68 del 1999 di coniugare la valorizzazione delle capacità professionali dei disabili (o equiparati) con la funzionalità economica delle imprese che li assumono.
Considerata l’importanza del tema trattato, segue il testo integrale della sentenza commentata.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-02-2015, n. 3931
Fatto Diritto P.Q.M.
LAVORO (RAPPORTO DI)
Assunzione (diritto alla)
Licenziamento per giustificato motivo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 29641-2011 proposto da:
G.M. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato OLDRINI ALESSIO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
SOCIETA’ AGRICOLA CORTE GRANDE S.A.S. DI ANDREA PEDRINI & C, (già AZIENDA AGRICOLA CORTE GRANDE S.A.S. DI ALBERTO PEDRINI E C.) C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato VESCI GERARDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAGGESE MARGHERITA, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 534/2010 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 23/11/2010 r.g.n. 244/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/12/2014 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;
udito l’Avvocato VESCI GERARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 23 novembre 2010 la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Cremona con la quale era stata rigettata la domanda di G.M., collocato obbligatoriamente presso l’Azienda Agricola Corte Grande s.a s. di Andrea Grande & C, volta ad accertare l’illegittimità del licenziamento comminatogli il 4/1/2006 per superamento del periodo di comporto.
La Corte d’appello ha rilevato che il lavoratore lamentava la violazione della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, secondo cui era annullabile il licenziamento di lavoratore occupato obbligatoriamente per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo quando al momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente fosse inferiore alla quota di riserva. Secondo la Corte il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituiva un’ipotesi speciale di licenziamento che trovava una sua specifica disciplina prevalente sia sulla disciplina della risoluzione per impossibilità parziale sopravvenuta, sia su quella limitativa dei licenziamenti di cui alle L. n. 604 del 1966 e L. n. 300 del 1970 con la conseguenza che il superamento del termine determinato dalla disciplina collettiva o dagli usi o in difetto dal giudice, costituiva condizione sufficiente di legittimità del recesso.
La Corte ha poi sottolineato che il licenziamento per superamento del comporto era distinto dal licenziamento per giustificato motivo oggettivo; che l’art. 10, comma 4, citato era di stretta interpretazione e che, pertanto, non era applicabile alla fattispecie in esame. Infine la Corte ha escluso che la malattia del ricorrente fosse riconducibile all’attività svolta non avendo mai esercitato mansioni incompatibili.
Avverso la sentenza ricorre il G. formulando 4 motivi.
Resiste l’Azienda Agricola che deposita controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo denuncia violazione della L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, e con il secondo vizio di motivazione.
Deduce che il licenziamento per superamento del comporto è licenziamento per giustificato motivo oggettivo seppure speciale e che la Corte non si era pronunciata sulla natura del recesso citando soltanto sentenze che sottolineavano la specialità del recesso. Il motivo è infondato.
Deve, in primo luogo, rilevarsi che le previsioni dell’art. 10 citato sono tassative e non possono estendersi al licenziamento per superamento del comporto o al licenziamento disciplinare. Questa Corte ha affermato che (v Cass. 15873/2012) “In tema di licenziamento del lavoratore disabile, la L. n. 68 del 1999, art. 10, comma 4, – che prevede l’annullabilità del recesso esercitato nei confronti del lavoratore disabile (o di categoria equiparata) occupato obbligatoriamente qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dal precedente art. 3 della legge – riguarda soltanto il recesso di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo e non anche gli altri tipi di recesso datoriale”.
La Corte d’appello, facendo corretta applicazione di tali principi, ha escluso che al licenziamento per superamento del comporto fosse applicabile l’art. 10 citato.
Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, nel rilevare la specialità della figura di detto licenziamento richiamando anche la giurisprudenza di questa Corte sul punto (cfr Cass. n 5413/2003, 7730/2004 sulla riconducibilità alle regole dettate dall’art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti), la Corte di merito ha inteso proprio sottolineare che il licenziamento per superamento del comporto non è riconducibile alle altre ipotesi previste dall’art. 10 citato atteso che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al quale si riferisce tale disposizione, non può che essere quello per soppressione del posto (ossia il c.d. licenziamento economico) in simmetria con il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2110 c.c., dell’art. 115 c.p.c. nonchè vizio di motivazione.
Lamenta che nè il tribunale nè la Corte d’appello hanno accolto l’istanza di consulenza tecnica al fine di provare l’affidamento al lavoratore di mansioni incompatibili che avevano determinato molte delle sue assenza dal lavoro.
La censura è infondata. Il dipendente che sostenga la dipendenza dell’infermità da una causa di servizio ha l’onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti la qualifica rivestita. Il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio (v Cass 21825/2014, n 15269/2012).
Nè può avere valore esclusivo e determinante la consulenza tecnica – considerato che essa non costituisce un mezzo sostitutivo dell’onere della prova, ma solo uno strumento istruttorio finalizzato ad integrare l’attività del giudice per mezzo di cognizioni tecniche con riguardo a fatti già acquisiti (Cass. n. 16778 del 17/07/2009).
Nella specie i giudici di merito hanno ritenuto che le risultanze della prova testimoniale svolta con l’accertamento delle mansioni assegnate al ricorrente consentisse di escludere già da tali elementi la loro incompatibilità con le assenze per malattia, nè risultano dedotte specifiche circostanze idonee a pervenire a diverse conclusioni. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla contro ricorrente le spese processuali liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e 15% per spese generali.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2015

Centro di Documentazione Giuridica – La competenza giurisdizionale in tema di sostegno al minore disabile è del giudice ordinario, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

In tema di riparto di giurisdizione, il dibattito intorno al riconoscimento o meno di un diritto soggettivo (con conseguente pronuncia a favore della giurisdizione del giudice ordinario) oppure di un interesse legittimo del minore disabile in tema di sostegno scolastico (con giurisdizione affidata al giudice amministrativo) è sempre a ancora attuale.
In merito segnaliamo la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, n. 25011/2014 del 25 novembre 2014 che, non è solo pregevole per la forma espositiva e la tecnica motivazionale, ma è molto importante e condivisibile nel merito, in quanto ha stabilito che spetta al giudice ordinario la giurisdizione sull’assistenza del minore disabile a scuola, perché il diritto all’istruzione è parte integrante del riconoscimento e della garanzia dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella pari dignità sociale che consente il pieno sviluppo e l’inclusione della persona umana con disabilità.
La sentenza arriva dopo che un genitore ha presentato ricorso contro le amministrazioni statali e comunali, che avevano assegnato al figlio minore, affetto da handicap grave certificato dalle competenti commissioni mediche ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della Legge 104/1992, 15 ore di Aec, non garantendo il rapporto di 1 a 1, un numero di ore non equivalenti all’intero orario di frequenza.
La Corte regolatrice della giurisdizione, dopo un excursus sulla normativa vigente nazionale e internazionale in materia, argomenta partendo dalla legge 1° marzo 2006, n. 67 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), che nel promuovere la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali, traccia all’articolo 2 una rilevante distinzione tra due possibili forme di violazione di tale parità (la discriminazione diretta e la discriminazione indiretta), e, all’articolo 3, affida al giudice ordinario la competenza giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti discriminatori, richiamando le nuove norme sulla tutela antidiscriminatoria previste dall’articolo 28 del Dlgs n. 150/2011.
La stessa Corte ha altresì richiamato quanto già disposto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 215 del 1987, in cui è chiarito che la frequenza scolastica è, «insieme alle pratiche di cura e riabilitazione ed al proficuo inserimento nella famiglia», «un essenziale fattore di recupero del portatore di handicap e di superamento della sua emarginazione, in un complesso intreccio in cui ciascuno di tali elementi interagisce sull’altro e, se ha evoluzione positiva, può operare in funzione sinergica ai fini del complessivo sviluppo della personalità».
Pertanto, una volta che l’istituto scolastico abbia adottato un piano educativo individualizzato o uno strumento equipollente,  non c’è alcuna discrezionalità da parte dell’amministrazione nell’assegnare le ore di sostegno, che debbono essere comunque assicurate in misura pari al piano educativo già deliberato.
La Corte di Cassazione (Sentenza n. 25011/2014 del 25 novembre 2014, delle Sezioni Riunite) ha chiarito che questa materia non attiene alla mera erogazione di un servizio pubblico (riservata al giudice amministrativo) ma è parte integrante del riconoscimento dei diritti della persona, e della garanzia che ai disabili sia garantita l’inclusione sociale.
L’Amministrazione dunque non ha margini di discrezionalità nel modificare l’attribuzione delle ore di Sostegno scolastico quale è stabilita, dal “Gruppo di lavoro per l’integrazione degli handicappati”, con il Piano Educativo Individualizzato. Dunque in tale materia, non esiste la giurisdizione esclusiva (in materia di servizi pubblici) del giudice amministrativo.
Il piano educativo individualizzato per il sostegno scolastico dell’alunno in situazione di handicap, una volta elaborato con il concorso degli insegnanti e degli operatori della sanità pubblica, comporta l’obbligo dell’amministrazione scolastica – priva di potere discrezione a rimodulare la misura del supporto integrativo in ragione della scarsità di risorse disponibili per il servizio – di apprestare gli interventi corrispondenti alle esigenze rilevate.
Le problematiche economiche, quindi, non possono legittimare l’omissione o l’insufficienza della misura del supporto integrativo che è lesiva del diritto dell’alunno disabile ad avere pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico, determinando – in assenza di una corrispondente contrazione dell’offerta formativa per gli altri allievi – una discriminazione indiretta, per la cui repressione è comunque competente il giudice ordinario.
Paolo Colombo

Centro di Documentazione Giuridica – Licenziamento legittimo del figlio del disabile che in permesso ex legge 104 va in discoteca, di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

In tema di licenziamento disciplinare, la Corte di Cassazione ha statuito la piena legittimità del provvedimento espulsivo nei confronti del dipendente che usufruisce del permesso «104» non per assistere il genitore ma per andare a ballare, a nulla rilevando il tipo di assistenza da fornire al disabile.
Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 8784 del 30 aprile 2015, ha chiarito che tale comportamento implica un disvalore sociale.
La condotta del lavoratore implica un disvalore sociale giacché il lavoratore usufruisce di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sull’intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi.
Inoltre il comportamento del lavoratore compromette anche il vincolo fiduciario con il datore di lavoro che è costretto ad organizzare diversamente il lavoro in azienda e con i propri compagni di lavoro che lo devono sostituire, sostenendo una maggiore penosità della prestazione lavorativa.
Questa Sentenza è solo l’ultima, in quanto già in passato il Centro di Documentazione aveva posto l’attenzione sul severo orientamento dei Giudici di Cassazione nel dichiarare legittimo il licenziamento di un lavoratore che godendo impropriamente dei permessi per assistere un disabile era andato in vacanza (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 4 marzo 2014, n. 4984), giustificando anche il controllo diretto del datore di lavoro al di fuori dell’azienda del lavoratore «furbetto».
È quindi opportuno ricordare nuovamente che il doveroso rigore della Suprema Corte di Cassazione in tema di permessi retribuiti ex art. 33 Legge 104 deve indurre anche i lavoratori disabili che beneficiano per se stessi di tali permessi a prestare maggiore attenzione e non utilizzarli impropriamente per compiere attività estranee a quelle di riposo e di cura che ne hanno giustificato la fruizione.
Di seguito la Sentenza n. 8784 del 30 aprile 2015.
Civile Sent. Sez. L num. 8784 Anno 2015
Presidente: Vidiri Guido
Relatore: Napoletano Giuseppe
Data pubblicazione: 30 aprile 2015
Sentenza sul ricorso 168-2014 proposto da:
A. E., elettivamente domiciliato in Roma, via degli Scipioni 268-A, presso lo studio dell’avvocato Beatrice Di Benedetto, rappresentato e difeso dall’avvocato Giovanni Osvaldo Piccirilli, giusta delega in atti;
ricorrente contro
Sevel – Società Europea Veicoli Leggeri Spa P. I. 00297220691, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cavour, 19, presso lo studio dell’avvocato Raffaele De Luca Tamajo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Giacinto Favalli, giusta delega in atti;
controricorrente
avverso la sentenza n. 1189 del 2013 della Corte d’Appello di L’Aquila, depositata il 03 ottobre 2013 Rgn 962 del 2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17 dicembre 2014 dal Consigliere dott. Giuseppe Napoletano; udito l’avvocato Piccirilli Giovanni Osvaldo; udito l’avvocato Cammarata Mario per delega verbale Favalli Giacinto; udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Carmelo Celentano che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del Processo
La Corte di Appello de L’Aquila, riformando la Sentenza del Tribunale di Lanciano, rigettava la domanda di A. E., proposta nei confronti della Sevel Spa, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimatogli da detta società per aver durante la fruizione del permesso per assistere la madre disabile grave, partecipato ad una serata danzante. A base del «decisum» la Corte del merito poneva la considerazione fondante secondo la quale, nella specie, non rilevava il tipo di assistenza che l’A. doveva fornire alla propria madre handicappata, quanto piuttosto la circostanza che il lavoratore aveva chiesto un giorno di permesso retribuito – ex art. 33, terzo comma, della Legge n. 104 del 1992, come modificata dalle Leggi n. 53 del 2000 e n. 183 del 2010 – per «dedicarsi a qualcosa che nulla aveva a che vedere con l’assistenza».
Ciò che veniva in evidenza, precisava la Corte territoriale, è che «l’A. aveva usufruito di una parte di questo permesso per finalità diverse da quelle a cui il permesso mirava, giacché, essendo il permesso richiesto finalizzato all’assistenza di persona portatrice di handicap, egli non poteva chiedere il predetto permesso per altra finalità del tutto estranea all’assistenza». Questo comportamento, secondo la predetta Corte, implicava «un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare, ad ogni permesso, diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa».
Ne conseguiva, asseriva la Corte di Appello, che «proprio per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, nel caso di specie, era particolarmente odioso e grave ripercuotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti».
Avverso questa sentenza A. E. ricorre in Cassazione sulla base di sette motivi, specificati da memoria. La società intimata resiste con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
Con la prima censura parte ricorrente, deducendo violazione dell’art. 33 della Legge n. 104 del 1992, sostiene che la Corte del merito non ha fatto corretta applicazione della richiamata norma poiché non ha tenuto conto che la relativa disciplina, come modificata dalle successive leggi, non richiede il requisito della continuità ed esclusività dell’assistenza cui bisogna aver riguardo ai fini del legittimo esercizio dei permessi.
Con il secondo motivo l’Alberico, denunciando violazione dell’art. 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, prospetta che la Corte del merito, nell’affermare che non vi è prova che il lavoratore dopo la festa danzante abbia utilizzato le ore di permesso per assistere la madre, si è posta fuori dal «tema decidendum» non essendo oggetto di contestazione disciplinare la circostanza concernente l’utilizzazione delle residue ore di permesso.
Con la terza critica il ricorrente, allegando violazione degli artt. 2697 cc e 5 della Legge n. 604 del 1966, assume che la Corte del merito ha erroneamente posto a suo carico la prova dell’avvenuta assistenza alla madre per il periodo successivo al suo ritorno a casa.
Con la quarta censura l’A., deducendo violazione degli artt. 112 e 132 cpc nonché 111 Cost. in relazione all’art. 360 n. 4 cpc, prospetta che la Corte del merito, non tenendo conto che era stata richiesta una specifica prova da esso ricorrente sull’avvenuta assistenza alla madre per il periodo successivo al suo ritorno a casa, non fornisce una motivazione congrua e logica ai sensi dell’art. 132 cpc.
Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 132 e 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 4 cpc e violazione ed omessa applicazione del Ccnl specifico di primo livello del 3 dicembre 2011, prospetta che la Corte del merito erroneamente non ha esaminato la deduzione secondo la quale il fatto contestato era assimilabile all’assenza ingiustificata per la quale il richiamato Ccnl prevede solo una sanzione conservativa.
Con la sesta censura l’A., asserendo violazione degli artt. 132 e 112 cpc in relazione all’art. 360 n. 4 cpc e violazione dell’art. 7 della Legge n. 300 del 1970, prospetta che la Corte del merito erroneamente non ha esaminato l’eccezione della mancata affissione in azienda del codice disciplinare.
Con il settimo motivo il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 2119 cc in relazione all’art. 360 n. 3 cpc e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, sostiene che la Corte del merito non ha tenuto conto ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e sanzione delle circostanze concernenti rispettivamente: l’assimilabilità del comportamento addebitato ad una ipotesi per la quale il Ccnl prevede una sanzione conservativa; la convinzione del lavoratore di aver agito legittimamente a mente dell’art. 33 della Legge 104 del 1992 e delle circolari Inps; la mancanza di precedenti disciplinari.
Le censure che, in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico giuridico vanno tratte unitariamente, sono infondate. È opportuno premettere che la riformulazione, applicabile nel caso di specie «ratione temporis», dell’art. 360, primo comma, n. 5, cpc, disposta dall’art. 54 del Dl 22 giugno 2012 n. 83, conv. in Legge 7 agosto 2012 n. 134, deve essere interpretata, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione e, conseguentemente, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della Sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. Su 7 aprile 2014 n. 8053 e Cass. Su 22 settembre 2014 n. 19881).
Tanto precisato va, altresì, rimarcato che il «decisum» della Sentenza impugnata si fonda, non sul tipo di assistenza ex art. 33, comma 3, Legge n. 104 del 1992, così come modificato dalle successive leggi, che l’A. doveva fornire alla madre handicappata, quanto piuttosto sul rilievo della utilizzazione del permesso retribuito per finalità diverse da quelle per il quale il legislatore ha previsto il diritto al permesso retribuito. Sono, pertanto, del tutto estranee al tema «decidendum» tutte le critiche che vengono mosse all’impugnata Sentenza sotto il profilo appunto della interpretazione della normativa di cui al richiamato art. 33, comma 3o, della Legge n. 104 del 1992 e successive modifiche.
Analogamente non costituisce «ratio decidendi» autonoma e fondante il rilievo della Corte del merito secondo il quale non emerge la prova che le residue ore di permesso sarebbero state utilizzate per l’assistenza alla madre.
Tale asserzione, infatti, va letta in uno alla osservazione secondo la quale «il comportamento del lavoratore, infatti, non sarebbe meno grave per il fatto che per una parte si è divertito e per l’altra parte ha assistito la madre, ciò che rileva è che se anche così fossero andate le cose comunque l’A. ha usufruito di una parte di questo permesso per finalità diverse da quelle a cui il permesso mira».
È, quindi, evidente che nell’economia motivazionale della Sentenza impugnata la ragione fondante del «decisum» non è la mancata prova della avvenuta assistenza alla madre per le ore residue, ma, come detto, la utilizzazione, in conformità alla contestazione disciplinare (così come riprodotta dal ricorrente nel ricorso), di una parte oraria del permesso in esame per finalità diverse da quelle per il quale il permesso è stato riconosciuto.
Conseguentemente non hanno valenza decisiva le censure che riguardano la mancata dimostrazione della utilizzazione delle ore residue del permesso e, quindi, in particolare la deduzione della violazione dell’onere della prova e della mancata ammissione della prova per testi sul punto in esame.
L’accertato disvalore sociale del comportamento del lavoratore ed il ritenuto abuso del diritto danno conto delle ragioni per le quali la Corte del merito, sia pure implicitamente, ha ritenuto irrilevante la questione della mancata affissione del codice disciplinare.
Costituisce, invero, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità l’affermazione secondo la quale in materia di licenziamento disciplinare, il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto «minimo etico» (Cass. 3 ottobre 2013 n. 22626, V. anche Cass. 18 settembre 2009 n. 20270 secondo cui in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro).
Tanto comporta, altresì, l’irrilevanza della deduzione concernente l’assimilabilità del fatto contestato all’ipotesi di assenza ingiustificata prevista dal Ccnl, atteso che la Corte del merito assegna al comportamento dell’A. una portata ben più ampia di quella dell’assenza ingiustificata che esclude di per sé la prospettata assimilabilità. Per analoghe ragioni è da escludersi la decisività delle circostanze concernenti la convinzione del lavoratore di aver agito legittimamente a mente dell’art. 33 della Legge 104 del 1992 e delle circolari Inps e della mancanza di precedenti disciplinari.
Invero a tali fini non può non venire in considerazione il rilievo della Corte del merito secondo il quale il comportamento tenuto dall’A. implica «un disvalore sociale giacché il lavoratore aveva usufruito di permessi per l’assistenza a portatori di handicap per soddisfare proprie esigenze personali scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare, ad ogni permesso, diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa». Ed è proprio questo accertato e ritenuto disvalore sociale che, in quanto proprio del comune sentire, rende irrilevante le deduzioni in esame. Del resto la Corte territoriale non manca di rimarcare che «proprio per gli interessi in gioco, l’abuso del diritto, nel caso di specie, è particolarmente odioso e grave ripercuotendosi senz’altro sull’elemento fiduciario trattandosi di condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti».
Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali rimangono assorbite tutte le ulteriori critiche, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del Dpr n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1, comma 17, della Legge n. 228 del 2012 per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del Dpr n. 115 del 2002 introdotto dall’art. 1, comma 17, della Legge n. 228 del 2012 si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 17 dicembre 2014
Il Presidente

Corte Costituzionale sentenza n.22/2015: riconoscimento delle provvidenze economiche agli stranieri «ciechi civili parziali» e «ciechi ventesimisti», di Paolo Colombo

Autore: Paolo Colombo

La Corte Costituzionale, il 27 gennaio u.s., ha emesso una sentenza che conferma l’orientamento favorevole alla concessione delle previdenze economiche ai non vedenti stranieri.
Nella sentenza 22/2015, precisa nuovamente la Suprema Corte che le provvidenze per indennità non sono condizionate al possedimento del permesso di soggiorno di lunga durata per le persone provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea. Essa in particolare, si esprime sulla pensione per i «ciechi civili parziali» e sull’indennità speciale per i «ciechi ventesimisti» stranieri riconoscendo l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedono il possesso del permesso di soggiorno di lunga durata per il riconoscimento della citate previdenze.
Nella sentenza di cui si riporta il testo integrale in allegato, la Corte Costituzionale, riprendendo i precedenti pronunciamenti in materia, chiarisce nuovamente che è illegittimo conferire tali provvidenze solo a chi è in possesso del permesso di soggiorno di lunga durata; infatti, anche alle persone che provengono da Paesi extra-europei soggiornanti in Italia e che hanno limitazioni alle funzioni visive (persone cieche parziali e cieche ventesimiste) spetta la «pensione ai ciechi parziali» e «l’indennità speciale ciechi ventesimisti», anche se non sono in possesso della carta di soggiorno.
Tale Sentenza segue l’indirizzo già adottato dalla Corte Costituzionale con i precedenti pronunciamenti sull’indennità mensile di frequenza, sull’indennità di accompagnamento per gli invalidi civili, sulla pensione per le persone con invalidità civile totale e sull’assegno mensile di assistenza per le persone con invalidità civile parziale.
Sentenza della Corte Costituzionale 27 gennaio 2015, n. 22
“Giudizio di legittimità costituzionale su Art. 80, c. 19° , della legge 23/12/2000, n. 388, in combinato disposto con l’art. 9, c. 1°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, come modificato dall’art. 9, c. 1°, della legge 30/07/2002, n. 189, poi sostituito dall’art. 1, c. 1°, lett. a), del decreto legislativo 08/01/2007, n.3. art. 80, c. 19° legge del 23/12/2000 n. 388”

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), in combinato disposto con l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), promosso dalla Corte d’appello di Bologna con ordinanza del 20 settembre 2012 e nel giudizio di legittimità costituzionale del predetto art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza del 20 maggio 2014, iscritte rispettivamente al n. 4 del registro ordinanze 2013 e al n. 148 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2013 e n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS);
udito nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
udito l’avvocato Clementina Pulli per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1.? Con ordinanza del 20 settembre 2012, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, primo comma, 32, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale, questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001) e dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), «in correlazione» con l’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e con l’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti).
Alla luce dei princìpi affermati nella giurisprudenza costituzionale, il giudice rimettente reputa manifestamente irragionevole subordinare «l’attribuzione di una prestazione assistenziale quale la indennità di accompagnamento riconosciuta al c.d. cieco civile ventesimista», al possesso di un titolo alla permanenza nel territorio dello Stato che richiede, tra l’altro, la titolarità di un reddito; con «incidenza negativa», anche, sul diritto alla salute (art. 32 Cost.), sui diritti riconosciuti dagli altri parametri evocati (artt. 2, 3 e 38 Cost.) nonché sui diritti inviolabili della persona tutelati dalle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma, Cost.), che vietano la discriminazione nei confronti degli stranieri legalmente soggiornanti; con violazione anche dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 della CEDU e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale.
Tutti questi rilievi varrebbero «a maggiore ragione» anche per il diritto alla pensione; con la conseguenza che la subordinazione della attribuzione di tale prestazione al possesso di un titolo di soggiorno, a sua volta subordinato alla titolarità di un reddito, «rende ancora più evidente la intrinseca irragionevolezza del complesso normativo in esame».

In punto di rilevanza, la questione appare pregiudiziale, posto che l’appellato possiederebbe tutti i requisiti per il riconoscimento delle prestazioni domandate, ad eccezione di quello richiesto dalla disposizione censurata.

2.? Nel giudizio si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale, (d’ora in avanti «INPS»), chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
L’INPS osserva come, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, debba considerarsi legittima l’introduzione di limitazioni all’attribuzione di prestazioni assistenziali e pensionistiche in relazione a taluni requisiti, come il reddito e la stabile permanenza nel territorio dello Stato.
Quanto, poi, alla CEDU, nel suo ambito «(peraltro, di evidente contenuto politico-programmatico)», non sarebbero «individuabili norme di rango costituzionale che impongano al legislatore di equiparare gli stranieri ai cittadini dell’Unione ai fini della concessione di provvidenze economiche di mera assistenza sociale», mentre la condizione giuridica dello straniero, regolata dalla legge, rispetterebbe il parametro di cui all’art. 10, primo comma, Cost., «in quanto le diverse prestazioni di assistenza sociale, riconosciute ai possessori di carta di soggiorno rispetto ai possessori di permesso di soggiorno, appaiono ispirate al principio di ragionevolezza e di rispetto della condizione dello straniero».
La norma censurata, d’altra parte, «inserita nella legge finanziaria», mirerebbe evidentemente anche a contemperare la concessione dei benefìci alle esigenze connesse alla limitatezza delle «risorse finanziarie disponibili»: da un lato, basandosi «sul presupposto della equiparazione del disabile straniero al disabile cittadino italiano ai fini dell’ottenimento delle provvidenze economiche di natura assistenziale» come quelle in discorso e, dall’altro, correlandosi al principio della non “esportabilità” delle provvidenze medesime in sede comunitaria, ai fini, anche, della prevenzione del fenomeno del cosiddetto “turismo assistenziale”.
3.? Con ordinanza depositata il 20 maggio 2014, la Corte di cassazione ha sollevato #questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della richiamata legge n. 388 del 2000, «nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato».
Passati in rassegna i motivi di ricorso ed enunciata la rilevanza della questione, il giudice rimettente ne illustra anche le ragioni di non manifesta infondatezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale più volte soffermatasi sulla disciplina di cui alla disposizione censurata, dichiarata costituzionalmente illegittima in riferimento ai diversi istituti assistenziali di volta in volta presi in considerazione.
Viene, in particolare, rammentata la sentenza n. 40 del 2013, i cui princìpi – enunciati in riferimento alla condizione di soggetti «portatori di handicap fortemente invalidanti» – si ritiene non possano «non valere anche con riferimento alle prestazioni assistenziali, richieste nel giudizio principale»: si tratterebbe, infatti, di prestazioni destinate a «fornire alla persona un minimo “sostentamento” idoneo ad assicurare la sopravvivenza», in relazione a «una condizione fisica gravemente menomata», e predisposte per «consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare».

Si sottolinea, in particolare, la peculiarità propria dell’indennità di accompagnamento per ciechi rispetto all’omonima provvidenza prevista per altri invalidi e si osserva, quanto all’assegno sociale maggiorato, che nel giudizio principale risulta «inapplicabile “ratione temporis”» la disciplina di cui all’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133.

Si esclude, infine, sia la possibilità di «una interpretazione costituzionalmente orientata» sia una disapplicazione della disposizione censurata per contrasto con l’art. 14 della CEDU, «“norma di principio”» priva, come tutte «le previsioni della Convenzione», di «efficacia diretta nel nostro ordinamento».

4.? Nel giudizio si è costituito l’INPS, che ha chiesto dichiararsi infondata la proposta questione.
Evidenziate le caratteristiche dell’assegno sociale, l’INPS osserva come, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, questa provvidenza è corrisposta a condizione che gli aventi diritto abbiano soggiornato legalmente in via continuativa nel territorio nazionale per almeno dieci anni, così che il trattamento riservato allo straniero dalla norma denunciata risulta «sicuramente più favorevole rispetto a quello previsto per il cittadino italiano».
Effettivamente, peraltro, si sarebbero rimodulati «in senso restrittivo i requisiti costitutivi che consentono l’accesso alle provvidenze in questione», senza, tuttavia, che la risultante disciplina possa ritenersi illogica o irrazionale.
Quanto al profilo relativo alle norme CEDU come parametro interposto ed a quello concernente le esigenze di finanza pubblica alle quali riconnettere la norma censurata, l’INPS ripropone, in sostanza, gli argomenti già esposti.

5.? In una ulteriore memoria, depositata in prossimità dell’udienza, l’INPS ha insistito nella richiesta formulata, sottolineando, in particolare, «la differenza tra l’assegno sociale e le altre prestazioni assistenziali», anche in ragione della «disciplina differenziata prevista dal Legislatore per l’accesso» alle medesime.
Considerato in diritto
1.? La Corte è chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), denunciato dalla Corte d’appello di Bologna, con ordinanza del 20 settembre 2012, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, primo comma, 32, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale – in «combinato disposto» con l’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), poi sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e «in correlazione» con l’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e con l’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti) –; nonché dalla Corte di cassazione, con ordinanza depositata il 20 maggio 2014, «nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato».

2.? Avendo ad oggetto una medesima disposizione, i giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
La questione prospettata dalla Corte d’appello di Bologna relativamente all’art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 286 del 1998, come modificato, «in combinato disposto» con il predetto art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, appare priva di autonomia agli effetti del petitum perseguito, essendo quest’ultimo evidentemente diretto a rimuovere la preclusione prevista in linea generale per i cittadini extracomunitari e riferibile anche alle provvidenze in discorso.

3.? Va preliminarmente rilevato che l’ordinanza rimessa dalla Corte di cassazione presenta insuperabili carenze nella motivazione, tanto in ordine all’esatta e specifica individuazione dei parametri costituzionali che si assumono violati, quanto in merito alle ragioni della non manifesta infondatezza, ponendo, dunque, una questione che va dichiarata manifestamente inammissibile. Il giudice rimettente si limita, infatti, ad operare un semplice rinvio, per relationem, all’eccezione sollevata dalla parte ricorrente e ad una rievocazione, peraltro generica, dei princìpi posti a base di numerose pronunce di questa Corte relativamente alla stessa materia. Viene, in particolare, richiamata la sentenza n. 40 del 2013, con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione qui all’esame, nella parte in cui subordinava al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell’indennità di accompagnamento, di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), e della pensione di inabilità, di cui all’art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili).
Occorre ribadire, al riguardo, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che, ai fini del necessario scrutinio della rilevanza della questione sottoposta nonché dei profili della sua non manifesta infondatezza, il giudice rimettente non può esimersi dal fornire, nell’atto di promovimento, un’esauriente ed autonoma motivazione (ordinanza n. 33 del 2014): dovendosi, invece, escludere che il mero recepimento o la semplice prospettazione di argomenti sviluppati dalle parti o rinvenuti nella giurisprudenza, anche costituzionale, equivalgano a chiarire, per sé stessi, le ragioni per le quali “quel” giudice reputi che la norma applicabile in “quel” processo risulti in contrasto con il dettato costituzionale (nello stesso senso, sentenza n. 7 del 2014).
L’enunciata carenza, d’altra parte, non appare, nella specie, emendabile neppure attraverso una sorta di “interpretazione contenutistica” del provvedimento: se si esclude, infatti, un fugace accenno alla violazione del principio di solidarietà, non risultano additati, con autonomo apprezzamento, specifici “vizi” della normativa censurata, né risulta operata alcuna autonoma selezione di profili di illegittimità, in riferimento a specifici parametri, rispetto a quelli complessivamente rintracciati nelle “fonti” richiamate.
Nel dubitare della legittimità della norma denunciata, la Corte rimettente non sembra abbia, d’altra parte, considerato significativo, sotto alcun profilo, un eventuale problema di compatibilità – astrattamente riguardante i cittadini extracomunitari così come gli italiani – tra le varie misure assistenziali in discussione (e, in particolare, tra l’assegno sociale e la pensione di inabilità): le quali appaiono immotivatamente accomunate sul versante delle garanzie di “non discriminazione”, peraltro solo implicitamente evocate, nonostante le differenze nella ratio, nella disciplina positiva e nelle finalità – in ipotesi, appunto, perfino alternative – che le caratterizzano.

4.? È fondata, invece, la questione sollevata dalla Corte d’appello di Bologna e riferita alla previsione che subordina alla titolarità della carta di soggiorno la concessione, in favore dei ciechi extracomunitari, della pensione di cui all’art. 8 della legge n. 66 del 1962, a norma del quale «Tutti coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere dal compimento del 18° anno di età» nonché della speciale indennità di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 508 del 1988, secondo cui «A decorrere dal 1° gennaio 1988, ai cittadini riconosciuti ciechi, con residuo visivo non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale correzione, è concessa una speciale indennità non reversibile al solo titolo della minorazione di L. 50.000 mensili per dodici mensilità».
Al riguardo, appare utile, anzitutto, muovere dal precedente specifico costituito dalla già richiamata sentenza n. 40 del 2013.
In questa decisione, prendendo in esame l’identica condizione ostativa della necessaria titolarità della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, a norma del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo»), ai fini del riconoscimento agli stranieri extracomunitari dell’indennità di accompagnamento (di cui all’art. 1 della legge n. 18 del 1980) e della pensione di inabilità (di cui all’art. 12 della legge n. 118 del 1971) (provvidenze del tutto simili a quelle in esame), la Corte rilevò in particolare, sulla scia di proprie analoghe precedenti pronunce, come, nell’ipotesi in cui vengano in rilievo provvidenze destinate al sostentamento della persona nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile si trova inserito, «qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU», per come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Questi princìpi dovevano trovare applicazione – si osservò – anche in riferimento alle misure assistenziali prese in considerazione nel frangente, in riferimento a benefìci rivolti a soggetti in gravi condizioni di salute, portatori di impedimenti fortemente invalidanti, la cui tutela implicava il coinvolgimento di una serie di valori di essenziale risalto e tutti di rilievo costituzionale, a cominciare da quello della solidarietà, enunciato all’art. 2 Cost. Del resto – si disse – anche le diverse convenzioni internazionali, che parimenti presidiano i corrispondenti valori, rendevano «priva di giustificazione la previsione di un regime restrittivo (ratione temporis, così come ratione census) nei confronti di cittadini extracomunitari, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile ed in modo non episodico».
I rilievi appena richiamati debbono, a fortiori, essere riaffermati in riferimento allo stato delle persone non vedenti. La specificità, infatti, dei connotati invalidanti – resa evidente dalla particolare attenzione e dal favor che caratterizzano, da epoca ormai risalente, la normativa di settore, con la previsione di diverse provvidenze per le persone che risultino averne titolo – renderebbe ancora più arduo giustificare, nella dimensione costituzionale della convivenza solidale, una condizione ostativa – inevitabilmente discriminatoria – che subordini al possesso della carta di soggiorno la fruizione di benefìci intrinsecamente raccordati alla necessità di assicurare a ciascuna persona, nella più ampia e compatibile misura, condizioni minime di vita e di salute.
Ove così non fosse, d’altra parte, specifiche provvidenze di carattere assistenziale – inerenti alla sfera di protezione di situazioni di inabilità gravi e insuscettibili di efficace salvaguardia al di fuori degli interventi che la Repubblica prevede in adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà (art. 2 Cost.) – verrebbero fatte dipendere, nel caso degli stranieri extracomunitari, da requisiti di carattere meramente “temporale”, del tutto incompatibili con l’indifferibilità e la pregnanza dei relativi bisogni: i quali requisiti ineluttabilmente finirebbero per innestare nel tessuto normativo condizioni incoerenti e incompatibili con la natura stessa delle provvidenze, generando effetti irragionevolmente pregiudizievoli rispetto al valore fondamentale di ciascuna persona.
La disposizione denunciata, pertanto, risultando in contrasto con gli evocati parametri costituzionali e con i relativi princìpi – oltre che con quelli più volte affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo –, deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima.

per questi motivi

La Corte costituzionale
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ? legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della pensione di cui all’art. 8 della legge 10 febbraio 1962, n. 66 (Nuove disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili) e dell’indennità di cui all’art. 3, comma 1, della legge 21 novembre 1988, n. 508 (Norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti);
2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 gennaio 2015.

F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI

Centro di Ricerca Giuridica – La Cassazione non ritiene applicabili ai trasferimenti disciplinari le garanzie della legge 104, a cura di Paolo Colombo

Autore: a cura di Paolo Colombo

La Cassazione, con la sentenza 6917 del 13 gennaio 2015, respinge il ricorso di un magistrato beneficiario della legge 104, trasferito d’ufficio per illeciti disciplinari.
Il magistrato che viene trasferito per motivi disciplinari non può dunque invocare la tutela concessa dalla legge 104 alle disabili.
Secondo il magistrato la sua condizione di invalido e quella di sua madre avrebbero dovuto bloccare il cambio di sede disposto dal CSM. Ad impedirlo c’erano i diritti concessi dalla legge quadro (104/1992) che garantisce, ove possibile, la scelta della sede di lavoro più vicina al genitore o al familiare del lavoratore pubblico o privato, vietando il trasferimento senza consenso dell’invalido.
Il trasferimento del magistrato, disposto in via cautelare dalla sezione disciplinare del CSM, non si pone però in contrasto con la l. n. 104/1992, in materia di assistenza alle persone disabili – che attribuisce al lavoratore che assiste un parente invalido il diritto alla scelta del luogo di lavoro – in quanto nel caso di specie, sono prevalse le esigenze di tutela del prestigio dell’istituzione giudiziaria.
La Cassazione infatti ha puntato  l’attenzione sull’espressione “ove possibile” contenuta nell’art. 33 comma 5 della legge 104. L’esercizio del diritto non deve, infatti, comportare una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro o determinare un danno per la collettività, compromettendo il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione. La Suprema Corte inoltre ha precisato che l’’esigenza di contemperare i diversi interessi resta anche alla luce della modifiche apportate dalla legge 53/2000 che, ai fini del diritto alla tutela, ha tolto il requisito della convivenza.
Le garanzie della 104 trovano però un ostacolo nel rispetto dell’obiettivo della norma sui trasferimenti cautelari che è quello di evitare la permanenza nel luogo dell’illecito per non aggravare la posizione dell’interessato, ma, soprattutto per non compromettere la funzione giudiziaria e il prestigio della magistratura.
Ecco  l’estratto della sentenza commentata
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 13 gennaio – 7 aprile, n. 6917 Presidente Rovelli – Relatore Vivaldi
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. B) c.p.c. in riferimento all’art. 3 e 33, commi 3, 5 e 6 della Legge 104/1992, nonché dei principi costituzionali sottesi alla citata legge ex artt. 32 e 38 Cost., nonché violazione dei principi della convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità recepita con legge n. 18/2009, in riferimento agli artt. 13 e 22 del D.Lgs. 109/2006; nonché contraddittoria e manifesta illogicità ai sensi dell’art. 606, lett. E) c.p.c. dell’ordinanza cautelare n. 95/2014 in questa sede impugnata.
Con il secondo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett. B) c.p.c. in riferimento all’art. 3 e 33, commi 3, 5 e 6 della Legge 104/1992, nonché in riferimento agli artt. 13 e 22 del D.Lgs. 109/2006; ed ancora si deduce contraddittorietà e manifesta illogicità ai sensi dell’art. 606, lett. E) c.p.c. dell’ordinanza cautelare n. 95/2014 in questa sede impugnata.
I due motivi intimamente connessi sono trattati congiuntamente.
L’attuale ricorrente – sostituto procuratore presso il tribunale di Campobasso – trasferito ai sensi dell’art. 13, comma 2 e 22 d.lgs. n. 109 del 2006 al tribunale di Rovigo con funzioni di giudice (ord. n. 72 del 2014), ha censurato l’ordinanza n. 95 del 2014, con la quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato l’inapplicabilità della disciplina prevista dall’art. 33, comma 5, L. n. 104 del 1992 ai trasferimenti cautelari per i quali si prescinde dal consenso dell’interessato.
La richiesta di essere destinato a sede più vicina a quella di provenienza è giustificata dalla condizione di invalidità della madre e dello stesso ricorrente.
Le ragioni di infondatezza dei motivi.
Va, in via preliminare, ricordato che la legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, n. 104 del 1992, ha stabilito, all’articolo 33, comma 5 (come novellato dalla legge n. 53/2000), che il genitore o il familiare, lavoratore pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
La norma – anche alla luce degli interventi della Corte costituzionale – va interpretata secondo un criterio di rigore al fine di evitare abusi nella sua applicazione.
Il Giudice delle leggi, pur riconoscendo il valore primario della solidarietà e della tutela dei soggetti portatori di handicap, ha dato rilievo alla discrezionalità del Legislatore nell’individuare gli strumenti normativi finalizzati a garantire la condizione del portatore di handicap “mediante la interrelazione e la integrazione dei valori espressi dal complessivo disegno costituzionale” (Corte Cost. 22.7.2002 n. 372; Corte cost. n. 406 del 1992; Corte Cost. n. 246 del 1997; Corte Cost. n. 396 del 1997; Corte Cost. n. 325 del 1996; v. anche S.U. 9.7.2009 n. 16102).
La norma dell’art. 33 riconosce al lavoratore che assista un parente invalido la scelta della sede di lavoro all’atto dell’assunzione, od anche nel caso di successivo trasferimento a domanda.
Ciò, però, ove possibile; il che vuoi dire che l’esercizio di quel diritto non deve comportare una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro privato, o determinare un danno per la collettività, compromettendo il buon andamento e l’efficienza della pubblica amministrazione.
La stessa finalità di contemperamento di opposti interessi privati e pubblici, tutti parimenti rapportabili a valori di rango costituzionale, permane pur dopo la novella del testo originario dell’art. 33 della legge n. 104, operata con la legge n. 53 del 2000 che ha tolto il requisito della convivenza, lasciando, però intatti tutti gli altri (effettiva continuità nell’assistenza, carattere di particolare gravità dell’handicap di cui soffre il congiunto, necessità di prestazioni assistenziali permanenti, incompatibili con sede distante, mancanza di altri supporti parentali (v. fra le altre CdS, Sez. VI, 30 aprile 2002, n. 2319; CdS, Sez. IV, 22 febbraio 2006, n.793; CdS, Sez. IV, 3 dicembre 2010, n. 8527).
Queste brevi note sulla ratio e sulle finalità della legge n. 104 del 1992 ed in particolare dell’art. 33, comma 5 – anche al di là della ricorrenza o meno dei requisiti richiesti – rendono evidente la sua inapplicabilità, sia con riferimento al genitore, sia con riferimento allo stesso magistrato, al trasferimento cautelare.
Diversamente, verrebbe contraddetto proprio il presupposto sul quale questo si fonda, vale a dire l’irrilevanza del consenso del destinatario del provvedimento, laddove la norma dell’art. 33, comma 5 l. n. 104 del 1992, esclude testualmente che il dipendente che si trovi nelle condizioni di cui al comma 3, possa essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso.
La ratio legis del trasferimento cautelare, invece, è quella di evitare che la permanenza nel luogo in cui si sono verificati i fatti oggetto della contestazione in sede disciplinare possa ulteriormente aggravare la posizione dell’interessato e, soprattutto compromettere i principii fondamentali ai quali è improntata la funzione giudiziaria, nonché il prestigio dell’istituzione giudiziaria stessa (S.U. 28.9.2009 n. 20730; S.U. 8.7.2009 n. 15976).
Conclusivamente il ricorso è rigettato.
Nessun provvedimento è adottato in ordine alle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.
A cura di Paolo Colombo